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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Seminario di Madrid
Seconda parte: «La proposta cristiana»
Madrid, 26 marzo 1993


Ho cercato di descrivere la condizione spirituale dell’uomo di oggi e di darne una interpretazione. Ora dobbiamo cercare di rispondere alla domanda seguente: quale via di salvezza si apre davanti a questo uomo che abbiamo descritto? O più semplicemente: quale è, in che consiste la salvezza per questo uomo? La risposta a questa domanda occuperà tutta la nostra riflessione in questa seconda conferenza.

Prima di cominciare a costruire la nostra risposta, vorrei fare un’osservazione preliminare. L’uomo può rendere se stesso indifferente a tutto, meno che ad una cosa: alla sua beatitudine!

Può rifiutare tutto, ma non può rifiutare di essere beato, di essere felice. Può spegnere in se stesso ogni desiderio, ma non il desiderio di essere beato, di essere felice. Esiste una pagina mirabile nel commento di sant’Agostino al Vangelo secondo Giovanni nella quale egli mostra che l’uomo non può trovare la sua salvezza in Cristo se non si sente attratto da Lui: se Egli non gli si rivela come risposta al desiderio di verità, di vita, di eternità, di bontà, che abita nel cuore di ciascuno. Anzi, Agostino giunge a dire che la Rivelazione è questa attrazione (cfr. Commento al Vangelo di san Giovanni, 26, 4-6): “ista revelatio, ipsa est attractio”. In un certo senso, abbiamo già trovato la risposta alla nostra domanda, nel modo più semplice. La via di salvezza che si apre davanti all’uomo di oggi, è la stessa che si apriva all’uomo di ieri, che si aprirà all’uomo di domani, poiché è la via che si apre all’uomo come tale: la pienezza del suo desiderio di beatitudine. Poiché, precisamente, la salvezza è questa pienezza. “Che cosa desidera l’anima più ardentemente della verità? Di che cosa dovrà l’uomo essere avido, a quale scopo dovrà custodire sano il palato interiore, esercitato il gusto, se non per mangiare e bere la sapienza, la giustizia, la verità, l’eternità?” (l. c., 5).

Questa risposta, assolutamente vera nella sua semplicità, può essere rifiutata dalla nostra libertà in due modi: la nostra libertà cioè può cercare altre due vie per raggiungere la beatitudine. La prima: decidere di cercare la pienezza del proprio desiderio fuori di Cristo; la seconda: decidere di decapitare, per così dire, il proprio desiderio, volendo accontentarsi di un poco di beatitudine, di un poco di verità, di un poco di giustizia, di un poco di vita. Vorrei proprio riflettere seriamente su questo “rifiuto di beatitudine” e farne l’oggetto del primo punto di questa riflessione. Chiamiamo questo “rifiuto di beatitudine”, sia che si presenti nel primo modo sia che si presenti nel secondo modo, la disperazione. Vedremo poi perché così la chiamiamo.

 

1. La disperazione, alternativa alla salvezza

A considerare bene le due forme che può assumere la disperazione, vediamo che esse sono profondamente connesse: l’una genera l’altra. La disperazione della pienezza per il proprio io lo conduce a porre la propria beatitudine in qualcosa di effimero. Reciprocamente la disperazione per ciò che è effimero (la disperata ricerca dell’effimero), lo porta a non prendere coscienza della propria eternità. C’è un evento spirituale all’origine di questa condizione di disperazione? Che cosa in realtà sta accadendo in questa persona?

Si tratta, in fondo, di una persona che ha rifiutato o che non è mai arrivata ad essere persona, ad essere un io. È questo un punto sul quale occorre che ci fermiamo a riflettere. Tutti i grandi maestri di spirito, credenti o non, da Platone a Pascal, hanno conosciuto questa possibilità per l’uomo di rimanere sempre nella pura immediatezza della propria sensibilità e dei propri meccanismi psichici. Kierkegaard descrive stupendamente questa situazione nel modo seguente. “Se immaginiamo una casa che abbia cantina, pianterreno e primo piano, abitata o ammobiliata in vista della reale e possibile differenza sociale fra gli inquilini dei diversi piani — e se vogliamo paragonare l’esistenza umana a una tale casa: ecco che purtroppo la maggior parte degli uomini si trova nella situazione triste e ridicola di coloro che, nella propria casa, preferiscono abitare in cantina… E non solo preferisce stare in cantina, ma l’ama fino al punto da montare sulle furie se uno gli propone di occupare il piano di sopra che è vuoto e a sua disposizione perché la casa in cui abita è sua” (La malattia mortale). Del resto, un Padre della Chiesa, Gregorio di Nissa, nel suo Commento all’Ecclesiaste (Omelia prima) dice che “tutto l’impegno che gli uomini pongono nelle occupazioni della vita è simile al gioco dei fanciulli che costruiscono simulacri sulla sabbia, il cui godimento cessa insieme all’impegno posto nel costruirli: non appena infatti hanno smesso di faticare, la sabbia, rovinando su se stessa, non lascia ai fanciulli traccia delle loro fatiche”.

 Da che cosa dipende questa situazione? Dal fatto di avere un’idea molto meschina di se stesso, vale a dire dal non avere nessuna idea dell’assoluto che l’uomo può essere, del suo infinito valore, della sua vocazione ad una beatitudine eterna. È questa la più comune forma di disperazione del mondo: quella che nasce dal non aver mai avuto coscienza del proprio io eterno. Notate bene: poiché è una disperazione che consiste in un’assenza di coscienza, essa è una disperazione che non sa di essere tale. Anzi, spesso è confusa colla felicità stessa, poiché non c’è alcuna consapevolezza infinita del proprio io: si vive nella pura immediatezza. La caratteristica principale di questa esistenza è la mancanza di libertà: desidera, teme, gode… ma non sceglie. La sua dialettica esistenziale è spiacevole/spiacevole, utile/dannoso. È un’esistenza “passiva”, non “attiva” nel senso profondo del termine.

Vorrei spiegarmi meglio mediante una parabola. Possiamo distinguere nella nostra esistenza tre condizioni: la nostra condizione prima della nascita, nel corpo della madre; la nostra condizione dalla nascita alla morte, nel tempo; la nostra condizione dopo la morte, nell’eternità. Immaginiamo che l’uomo possa avere piena coscienza già nel seno materno. Se la persona ritenesse che questa è la sua esistenza, quella intendo dire nel seno materno, che oltre essa non ne è possibile altra, essa esisterebbe certamente, ma in un grado povero. 

Se essa si rifiutasse di nascere, di uscire dal corpo materno, ritenendo di essere ingannato quando gli viene detto che la sua vita fetale non è che uno stadio di passaggio, si consegnerebbe alla morte senza avere mai vissuto in realtà. Questa persona sarebbe nella disperazione. Proviamo a raccontare a noi stessi la stessa parabola riferendola non più alla condizione dell’uomo che vive ancora nel seno materno, ma alla condizione dell’uomo che dopo la nascita vive nel tempo e rifiuta una vita e una beatitudine che non sia misurata sul e dal tempo. Questa è la disperazione che oggi l’uomo pone come alternativa alla beatitudine. È la disperazione dell’eternità.

Troviamo una verità che tutti i grandi maestri dello spirito hanno insegnato, come Eraclito che ha insegnato che gli uomini vivono dormendo, come Platone per il quale l’uomo deve affrontare il sole della verità uscendo dalla caverna delle illusioni, come Pascal di cui sono note le profonde riflessioni sul “divertimento” cui l’uomo si concede per evitare di dimorare nella sua verità. Ma credo che sia stato Calderon ad esprimere questa disperazione umana nel modo più alto in La vida es sueño, nella commedia.

L’uomo non può che sognare, sia quando è sveglio sia quando dorme (todos los que viven sueñan): non c’è scampo naturale all’illusione (cfr. II, XVIII e XIX soprattutto). La torre in cui è costretto a vivere Sigismondo è la casa di cui parla Kierkegaard, è la caverna di cui parla il mito platonico.

Ritorna allora ancora la stessa domanda: quale via di salvezza si apre davanti a questo uomo che vive questa condizione di inconsapevole disperazione come risposta al suo desiderio (decapitato) de beatitudine? Esiste una via per condurlo fuori da questa situazione? Calderon, quarant’anni più tardi, scriverà l’auto sacramental de La vida es sueño, precisamente per rispondere a questa domanda.

 

2. L’amore, rivelazione del mistero dell’uomo

La coscienza della propria dignità infinita, il divenire soggettivamente consapevoli della propria eternità, l’appropriazione della propria personale immortalità fa nascere la persona, in senso forte. È questo un punto centrale della nostra riflessione.

Al giovane che chiede a Gesù che cosa deve fare per avere la vita eterna, cioè la pienezza della beatitudine, Gesù risponde di vendere tutto ciò che possiede e di seguirlo. Sappiamo il finale tragico di questa storia: il giovane rifiuta di entrare nella vita eterna e la tristezza prende dimora nel suo cuore. Così è accaduto perché egli era ricco. La pagina evangelica è molto profonda. Questo giovane ha misurato la sua grandezza sulle ricchezze che possiede: ha misurato il suo essere sul suo avere. La grandezza del suo io dipende dalle sue ricchezze: perdere le sue ricchezze significa perdere se stesso. Egli non ebbe coscienza della sua dignità infinita, della grandezza incommensurabilmente superiore del proprio essere alle cose. Egli non avrebbe mai accettato che non si può mai perdere se stesso, anche in cambio dell’universo intero; che lo scambio fra “se stesso” e l’intero universo è da rifiutare perché la singola persona vale più che tutto l’universo.

Voglio raccontarvi una favola. Una volta un contadino molto povero guadagnò una somma ingente di denaro. Andò allora in città e per la prima volta in vita sua poté acquistare vestiti e scarpe di grande lusso, quali mai aveva vestito. Sul fare della sera, stanco, gli capita di addormentarsi lungo la via. Passa un’automobile e si ferma per non investirlo. L’autista scende, lo sveglia e lo prega di spostarsi, se non vuole essere investito. Il contadino si sveglia e vede le proprie gambe ed i propri piedi, vestiti e calzati stupendamente, e dice all’autista: “Passate pure, queste gambe non possono essere mie”. Il Signore chiede al giovane di riconoscere se stesso non nella misura delle proprie ricchezze, ma nell’eternità di una vita e di una beatitudine che ora gli veniva donata.

Eppure esiste un’esperienza nella quale la persona scopre la propria dignità infinita, il proprio incondizionato valore. Vorrei aiutarvi a entrare in questa esperienza con alcuni episodi di vita quotidiana.

Se in un’azienda pubblica di trasporti, al mattino quando inizia il servizio, un autista non si presenta al lavoro, il capo-servizio lo sostituisce con un altro pur di assicurare il servizio. Se un fidanzato da’ appuntamento alla sua fidanzata e questa non viene, che cosa fa il fidanzato? La sostituisce con un’altra?

Riflettete attentamente su queste due situazioni: esse vi aiutano a capire una delle più profonde verità metafisiche. Quando una persona è richiesta per un lavoro, perché svolga una funzione, essa è sostituibile. Quando una persona è voluta per se stessa essa non è più sostituibile: essa è unica, irripetibile, fuori di ogni serie. Essa non può essere paragonata con niente altro: ha un valore infinito. Che cosa mi fa vedere questo valore unico della persona? Perché per il capo-servizio l’autista non è insostituibile, mentre per il fidanzato la fidanzata è insostituibile? La risposta è molto semplice: perché il fidanzato ama la fidanzata. È l’amore che svela agli occhi dell’amante il valore unico e incomparabile della persona amata: l’amore è la rivelazione del mistero della persona. Esso vuole la persona per se stessa e in se stessa.

Vorrei ora raccontavi un episodio realmente accaduto. Una giovane sposa perse, a causa di un aborto spontaneo, il suo primo bambino, che ella aveva profondamente desiderato. Cadde in una profonda disperazione. L’ostetrico, con le migliori intenzioni, volendo consolarla, le disse: “Signora, non pianga; lei può avere ancora bambini”. La signora rimase sconcertata, di fronte a questa consolazione. Rispose: “Dottore, i bambini non sono come le scarpe; è lui che io non avrò mai più”.

L’episodio è carico di significato più dell’esempio precedente. Per la madre anche di molti figli, ciascuno vale in sé e per sé; è bene che esista. Non è parte di una serie: ciascuno è voluto in sé e per sé, perché ha una preziosità infinita. Nessuno può prendere il posto di un altro, poiché ciascuno è irripetibile nel suo incomparabile valore. Ancora una volta è l’amore che scopre il valore della persona. Amare ed essere amato è il luogo in cui la persona prende coscienza della sua dignità infinita, diviene soggettivamente consapevole della propria eternità.

Ma all’interno di questo mistero dell’amore umano scoppia un paradosso, anzi viene ad abitare una profonda contraddizione: la persona amata muore.

La morte mette in discussione tutto quanto abbiamo detto finora sull’amore come rivelazione della persona. Se la persona ha un valore insostituibile, perché muore? Se vogliamo sentire dentro di noi la contraddizione fra amore e morte, proviamo ad immaginare di consolare chi ha perduto una persona amata dicendo che è una legge biologica quella di morire, che l’individuo è transitorio perché la specie perdura. Questa consolazione risulta precisamente priva di ogni efficacia perché nega ciò che l’amore afferma: l’unicità della persona amata. La persona non è individuo di una specie: questo è vero dell’animale, della pianta. Non è vero della persona, afferma l’amore. Questo è vero anche della persona, afferma la morte.

E così, la nostra riflessione sombra essere arrivata a un limite oltre al quale non può andare. Vediamo brevemente quale cammino abbiamo percorso.

• È la coscienza della propria dignità infinita, il divenire soggettivamente consapevoli della propria eternità che fa nascere la persona, in senso forte.

• Il luogo in cui questa coscienza è generata, in cui si diventa soggettivamente consapevoli della propria irripetibile unicità, è la relazione interpersonale di amore.

• Ma quando in questo luogo viene ad abitare la morte, questa mette in questione e nega precisamente ciò che l’amore afferma. Chi dei due, allora, dice la verità sull’uomo? L’amore o la morte? Dalla risposta a questa domanda dipende se la sorte ultima dell’uomo è la disperazione o la beatitudine.

 

3. L’amore più forte della morte: il Vangelo

Il problema, dunque, è di sapere se la morte può essere vinta: se esiste un amore così forte che sappia impedire alla persona di morire. Nota bene: chi ama vuole che la persona amata non muoia, ma non è capace di impedire la morte. Ha la volontà, ma non la potenza. Ora, che cosa dice precisamente il Vangelo? Dice che Dio ama la persona umana e che quindi non vuole che muoia, ma lo introduce in una vita e in una beatitudine eterna. L’amore finito della creatura vuole la vita della persona amata, ma è impotente. L’uomo si chiede: Dio può donare all’uomo la vittoria sulla morte, ma lo vuole? Cioè: Dio ama la persona umana? Il Vangelo, nella sua essenza, è la risposta affermativa a questa domanda.

Dobbiamo riflettere molto seriamente su questo punto. Ciascuno di noi è consapevole della propria fragilità esistenziale. Lo spavento vissuto da Pascal di fronte all’immensità del cosmo prende, prima o poi, ciascuno di noi e ci costringe a porre la domanda sulla nostra origine e sulla nostra destinazione. Che cosa sta alla nostra origine? È per caso che siamo venuti all’esistenza? È per una impersonale necessità che esistiamo, come parti di un tutto governato da leggi che vogliono l’individuo al servizio delle specie? La risposta del Vangelo è che all’origine della nostra esistenza sta un atto d’amore di Dio.

Che cosa significa? L’amore, come abbiamo visto, vuole la persona amata in se stessa e per se stessa: non in vista di qualcosa d’altro. Ognuno di noi è voluto per se stesso, sulla sua incomunicabile, irripetibile singolarità. Da questo punto di vista non esiste per l’amore di Dio la specie umana: esiste solo la persona umana. Esiste solo ciascuno di noi. Ed è a causa di questo rapporto che ciascuno di noi è voluto per sempre, per l’eternità.

La Rivelazione, sia nel senso di parola che nel senso di realizzazione, di questo amore di Dio è la morte e risurrezione di Cristo.

Vorrei, al riguardo, attirare la vostra attenzione su una pagina di sant’Agostino (En. in ps. 60, n. 4, NBA XXVI, pag. 329). Egli descrive bene la condizione reale di ciascuno di noi quando scrive: “Noi... sappiamo soltanto che l’uomo nasce e muore; non sapevamo che l’uomo risorge e vive in eterno”. È la nostra reale condizione. Sappiamo che cosa siamo, che cosa facciamo nel periodo fra la nascita e la morte. E prima della nascita? Cioè: chi/che cosa mi ha fatto entrare nell’esistenza? E dopo la morte? Cioè: chi/che cosa mi aspetta? Il nulla eterno? Ma, continua questo incomparabile conoscitore dell’anima umana, Cristo ci ha svelato precisamente ciò che sta dopo la nostra morte: “Con le sue fatiche… e la morte, Cristo ti ha mostrato la vita che hai da vivere adesso; con la sua resurrezione ti ha mostrato la vita che ti attende… per questo è diventato la nostra speranza”.

Si noti bene. Ciò che sarà per noi è già accaduto in lui, così che l’uomo non possa più dubitare. E tutta questa vicenda che cosa, alla fine, сі svela? “Dio non vuole la nostra dannazione… Diciamo che Dio non manca di stima per noi se per noi non ha risparmiato il suo Figlio, ma per noi tutti lo ha dato”.

Dunque, riassumendo un po’ ciò che abbiamo detto finora, siamo partiti da una domanda fondamentale: quale via di salvezza si apre davanti a questo uomo che abbiamo descritto nella conferenza precedente? Una sola: conoscere, sperimentare l’amore di Dio verso di sé, l’amore più forte della morte.

La salvezza dell’uomo consiste nel non perdere se stesso, cioè nella coscienza della propria dignità infinita, nel divenire soggettivamente consapevoli della propria eternità. Come è possibile far nascere nell’uomo questa coscienza? Esiste un solo modo: conoscere, sperimentare l’amore di Dio verso di sé, l’amore più forte della morte. L’alternativa alla disperazione è una sola: essere di fronte a Dio che in Cristo ci mostra il suo amore.

 

4. La nostra riflessione

Nella vita della Chiesa tutto si concentra, tutto si costruisce attorno a questo nucleo: l’amore (la grazia) di Dio in Cristo Gesù, l’amore più forte della morte. Anche la riflessione razionale, anche la teologia.

Ed è in questo contesto che anche il nostro lavoro si pone. Come abbiamo già detto, è l’amore che svela all’uomo il suo più intimo mistero, la sua verità ultima. L’uomo è ciò che abbiamo detto (nella prima conferenza) perché non ha conosciuto l’amore: “Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli” (San Giovanni). Abbiamo voluto concentrare la nostra attenzione sulla forma più alta, nell’ordine della creazione, dell’amore umano: la forma coniugale, per capirne l’intima natura. Ma non per fermarci ad esso. Attraverso esso, vogliamo riscoprire l’intera verità della persona umana e la sua preziosità. La riflessione sull’amore coniugale si articola in una riflessione antropologica (la verità dell’uomo) e in una riflessione etica (la preziosità della persona umana).

A quale scopo tutto questo? Per far capire all’uomo di oggi ciò che dice sant’Agostino nel passo già citato: “Dio non manca di stima per noi”.