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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


L'ECONOMIA: solo utilità?
Ferrara, 2 ottobre 2000

Sono profondamente grato al prof. Patrizio Bianchi dell'invito rivoltomi ad aprire l'anno accademico della vostra Facoltà. L'invito infatti mi da occasione di riflettere con voi su un tema che reputo di importanza decisiva per il destino dell'uomo: il senso ultimo dell'attività economica. Mi offre l'occasione di fare questa riflessione dentro all'Università, nel luogo cioè in cui si educa l'uomo non a servire al potente di turno, fosse anche sua divinità il Mercato, ma a pensare ubbidienti solo alle esigenze della ragione.

L'interrogativo con cui ho voluto enunciare il tema della mia riflessione indica che la nostra vuole essere una domanda sul significato ultimo dell'attività economica. Poiché questo tipo di domanda è oggi spesso censurato, estinguendo così la sorgente della libertà, vorrei iniziare la mia riflessione precisamente dal chiedermi perché oggi è necessario che ci interroghiamo sul significato ultimo dell'attività economica. E poi cercherò di rispondere alla domanda stessa. La mia relazione avrà dunque due punti.

1. Scienza e sapienza: fare ed agire

Parto da una distinzione fondamentale attinente all'operare umano: la distinzione fra "il fine" ed "il risultato" dell'azione. Mi servo di alcuni esempi. Il risultato dell'attività di un'impresa edilizia sono le sue costruzioni; il fine che si propone chi costruisce per es. un ponte, può essere quello di realizzare un buon guadagno economico, oppure di rendere più agevole il commercio superando la barriera naturale di un fiume, o altro ancora. Altro esempio. Eseguendo determinare operazioni secondo un protocollo ben definito, posso ottenere un concepito in vitro: il concepito in vitro è il risultato di operazioni ordinatamente compiute. Ma posso fare questo o perché sposi sterili abbiano un figlio o perché i biologi possano avere "materiale" per esperimenti.

Vorrei fare ora un passo avanti nella nostra riflessione. Uno degli avvenimenti più gravidi di conseguenze nella storia del nostro Occidente è stata la progressiva riduzione dei fini del mio agire ai risultati del mio fare; accade cioè nella coscienza dell'uomo una progressiva coincidenza dei fini col risultati. È questo un avvenimento sul quale dobbiamo ora meditare assai attentamente.

Che cosa significa "coincidenza del fine col risultato"? Significa almeno le seguenti cose: elevazione del criterio dell'efficacia a criterio principale per giudicare il valore di un azione; progressiva confusione del concetto di verità con quello di verifica misurabile quantitativamente; il discorso sul "valore" [sul bene] diventa sempre più insignificante, poiché il "prodotto" è valorizzato solo in base alla funzionalità. Possiamo dire sinteticamente che la coincidenza del fine col risultato è il risultato di quella mentalità tecnica che sembra caratterizzare così ampiamente il nostro ethos occidentale, che non verrà certamente scalzato dal …povero untorello dell'ecologismo, del ritorno cioè ad un rapporto colla natura come se nulla fosse accaduto.

Ho parlato di "tecnica". In verità c'è chi avrebbe detto "mentalità scientifica", vedendo nella scienza moderna questo progetto dell'uomo, questo modo di voler essere nel mondo da parte dell'uomo. Non è questo il luogo né il momento di addentrarci nel difficile problema dell'interpretazione della scienza moderna. Penso comunque che pochi neghino la discendenza legittima della tecnica dalla scienza modernamente intesa.

Ho detto di un "modo di voler essere nel mondo da parte dell'uomo". Alla fine, questa è la vera, ultima questione: come essere dentro all'universo dell'essere? Come porci in esso? solo nel modo progettato dalla tecnica [il nostro "logos" è "tecno-loghía"?] e dalla scienza oppure anche il modo proprio della sapienza? Lascio per il momento inevasa la risposta a questa domanda, perché voglio passare subito a riflettere sull'attività economica, alla luce della riflessione precedente.

Iniziamo riflettendo sulle conseguenze nell'ambito dell'attività economica, su alcune almeno, della riduzione della razionalità umana alla razionalità tecnica, della supremazia della razionalità tecnica.

La prima conseguenza è la difficoltà di percepire la distinzione fra moralmente giusto e tecnicamente efficente, colla tendenziale insidia a ridurre il primo al secondo. Questa distinzione è particolarmente importante, e quindi la sua scomparsa dalla coscienza morale dell'uomo particolarmente gravida di conseguenze negative, quando nell'analisi del fatto finanziario come fatto tecnico sorge il problema della sua controllabilità. In altre parole, la domanda che viene da porsi è la seguente: è possibile orientare i fenomeni complessi che si succedono e si intersecano nella finanza oppure è un processo che una volta innescato sfugge ad ogni intento ordinatore? È fatale per l'uomo "adagiarsi sul piano dell'uniformità organizzata e [per] installarsi in essa"? [M. Heidegger, Sentieri interrotti, ed. la Nuova Italia, Firenze 1968, pag. 97].

La seconda conseguenza è la difficoltà di percepire la distinzione fra moralmente giusto e giuridicamente lecito, colla tendenziale insidia a ridurre il primo al secondo. Non è qui il luogo di presentare una teoria generale della distinzione fra giusto/ingiusto e lecito/illecito. Ma questa distinzione è particolarmente importante, e quindi la sua scomparsa dalla coscienza morale dell'uomo particolarmente gravida di conseguenze negative, quando si affronta il problema di una giusta allocazione delle risorse economiche: "la persistenza di forti sperequazioni tra categorie di persone, che si alimenta tramite modalità sistematiche ingiuste e giuridicamente garantite, non può non provocare a lungo andare un logoramento del tessuto sociale, tale per cui è facile prevedere l'insorgenza di dinamiche destabilizzanti e distruttive. Una giusta allocazione dei beni materiali deve ricevere adeguata protezione all'interno di una società" [Etica e finanza, Ufficio Nazionale CEI per i problemi sociali e il lavoro, pag. 7]. Ma tale allocazione diventa impossibile se non è guidato da un criterio di giustizia non riducibile alla mera procedura giuridica.

La terza conseguenza è la difficoltà di percepire la distinzione fra il moralmente giusto e il consensualmente stabilito, colla tendenziale insidia a ridurre il primo al secondo. Un segno di una tale confusione interiore è la considerazione delle regole consensualmente stabilite per il funzionamento dei mercati finanziari, tale per cui si dà come una sorta di diktat: "o prendere o lasciare". Le regole sono queste: chi vi entra deve semplicemente accettarle. È legittimo però chiedersi se queste regole siano giuste, appellandosi ad un criterio che precede il consenso.

Il problema allora è quello di riordinare il mondo economico attraverso una visione più alta della sua "tecnica": non è sufficiente per essere buoni economisti essere scientificamente competenti, ma è necessario essere umanamente sapienti. La scienza ti insegna il fare; la sapienza ti insegna l'agire. L'una ti istruisce sul come raggiungere efficacemente i risultati che sono propri dell'agire economico in quanto economico; l'altra ti educa sul come realizzare concretamente i fini che sono propri dell'agire economico in quanto agire umano.

Vorrei ora nel secondo punto della mia riflessione intrattenermi su questa dimensione "sapienziale" dell'agire economico. Dovendolo fare brevemente, sono costretto a procedere molto sinteticamente quasi a modo di tesi, non argomentate come dovrebbero.

2. Antropologia – etica – economia

Parto da una riflessione molto generale, ma sulla quale vi invito a riflettere molto lungamente. La enuncio nel modo seguente: la chiave interpretativa dei sistemi economici-sociali è sempre una precisa visione dell'uomo. È l'antropologia l'anima dell'economia.

Quest'affermazione ha un duplice significato fondamentale. Essa intende descrivere un fatto: ogni sistema economico è sempre animato da una precisa visione dell'uomo. Ed intende dare un orientamento (sapienziale): l'economia è al servizio della persona umana.

Ha un significato descrittivo. Consentitemi un riferimento storico. L'errore fondamentale dell'economia del socialismo reale è stato un errore antropologico: un errore riguardante l'uomo. "Esso, infatti, considera il singolo uomo come un semplice elemento e una molecola dell'organismo sociale, di modo che il bene dell'individuo viene del tutto subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale, mentre ritiene, d'altro canto, che quel medesimo bene possa essere realizzato prescindendo dalla sua autonoma scelta, dalla sua ed esclusiva assunzione di responsabilità davanti al bene o al male. L'uomo così è ridotto a una serie di relazioni sociali, e scompare il concetto di persona come soggetto autonomo di decisione morale, il quale costruisce mediante tale decisione l'ordine sociale." [Giovanni Paolo II, lett. Enc. Centesimus Annus 13,1; EE8/1343]. Ma dobbiamo anche riflettere sull'errore antropologico presente, in misura più o meno rilevante e latente, in larga parte dell'economia occidentale. È un errore in cui la limitata ragione umana cade spesso se non è criticamente vigile: prendere una parte per il tutto. L'attività economica non è tutta l'attività umana; ne è solo un aspetto e una dimensione. Quando si cade nell'errore di assolutizzarla, la produzione e il consumo delle merci finiscono con l'occupare il centro della vita sociale e diventano l'unico valore della società, non subordinato a nessun altro. Quest'errore lo possiamo considerare da un altro punto di vista. La libertà economica non esaurisce l'intera esperienza della libertà umana: ne è solo un aspetto. L'identità libertà economica uguale a libertà umana riduce l'uomo ad essere produttore-consumatore di beni. La conseguenza è che la libertà economica costruisce un sistema nel quale la persona umana è alienata ed oppressa. Lo studio della scienza economica deve portarvi sempre ad interrogarvi della visione intera della persona umana e che cosa essa implica. Sistemi e teorie sociali non sono mai neutre dal punto di vista antropologico..

Da questa breve riflessione descrittiva deriva una conseguenza assai importante: il mercato e le attività economiche possono funzionare adeguatamente solo in un contesto etico; in altre parole, il riconoscimento dell'intera verità dell'uomo è esigito anche dal sistema economico. In che senso?

Siamo così giunti a considerare il significato normativo del rapporto antropologia-economia, della inseparabilità fra antropologia ed economia, della subordinazione dell'economia alla vera promozione della persona.

  1. Subordinare l'economia alla verità sull'uomo significa riconoscere che la vita sociale è espressione della congenita socialità dell'uomo, la quale si realizza attraverso la libertà. L'uomo non è un individuo che contratta la convivenza con gli altri: è una persona che nella libertà realizza la sua nativa chiamata alla società. Di conseguenza non solo questa libertà deve essere rispettata, ma promossa, garantendo anche giuridicamente e socialmente ambiti sempre più ampi di libera iniziativa.
  2. La libertà non è fine a se stessa: essa non è solamente né principalmente "libertà da…"; è "libertà per …", è "capacità di …". Stabilire e promuovere le condizioni basilari del suo esercizio, nel campo economico la libertà di mercato e nel campo politico la democrazia, non è sufficiente per subordinare l'economia all'uomo. È necessario che sia promossa la libertà dell'uomo in quanto soggetto che possiede fondamentali diritti.
  3. E qui entriamo nel punto nevralgico del rapporto antropologia-etica-economica: la vera nozione di sviluppo. Oggi risulta sempre chiaro che esso non può limitarsi al lato economico: all'avere. Ma è ugualmente chiaro che non si può "essere", se non si hanno beni indispensabili. È vero sviluppo quel tipo di sviluppo che rispetta i diritti umani, personali e sociali, inclusi i diritti dei popoli e delle nazioni. So che la vostra facoltà sta seriamente riflettendo su questa tematica.
  4. A quali condizioni è possibile costruire un'economia a misura della verità intera dell'uomo? Un'economia subordinata al bene integrale dell'uomo? Solo se si ha la certezza che ogni persona umana vale più dell'universo intero, in quanto ordinata a Dio stesso. "La dimensione teologica risulta necessaria sia per interpretare che per risolvere gli attuali problemi della convivenza umana. Il che vale – conviene rilevarlo – tanto nei confronti della soluzione "atea", che priva l'uomo di una delle sue componenti fondamentali, quella spirituale, quanto nei confronti delle soluzioni permissive e consumistiche, le quali con vari pretesti mirano a convincerlo della sua indipendenza da ogni legge e da Dio, chiudendolo in un egoismo che finisce per nuocere a lui stesso e agli altri " [Giovanni Paolo II, op. cit. 55,2; EE8/1481].

Conclusione

C'è una pagina di S. Agostino che può concludere stupendamente quanto ho detto. Egli parla di "una specie di matrimonio tra la ragione contemplativa e la ragione attiva, con l'attribuzione a ciascuna di funzioni diverse, ma senza compromettere l'unità dello spirito" [De Trinitate 12,12,19; NBA IV, pag. 489]. Esiste cioè nel nostro spirito la capacità di vivere ragionevolmente in questo mondo, producendo quei beni di cui abbiamo bisogno per vivere umanamente. Ma questa capacità deve essere unita alla capacità di capire il bene ultimo della persona, e come fecondata da essa. La vera tragedia dell'uomo è quando scienza e sapienza divorziano: l'economia diviene anti-umana anche se ricca di beni e di consumi.

La vostra esperienza universitaria deve educarvi, lo dico ancora con le parole di Agostino, "verso l'uso delle cose mutevoli e corporee, senza di che non si può vivere questa vita; ma non per conformarci a questo mondo … deviando su di esse il nostro desiderio di felicità" [ib. pag. 491]. Ma facendovi diventare veri sapienti della scienza economica.