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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Mistero e moralità dell’affettività umana
Santiago del Cile, 4 dicembre 1993


La riflessione sull’affettività umana ci introduce molto profondamente nel “cuore” della persona umana, perché ci porta all’origine stessa del suo quotidiano vivere.

Per capire che questo è veramente il luogo della nostra riflessione, partiamo da una constatazione molto semplice, quasi banale, e da una domanda. La constatazione: le decisioni, le scelte che costituiscono la nostra storia quotidiana sono molte e assai diverse tra loro. Alcune più importanti delle altre. La domanda: possiamo condurre a unità questa varietà, individuando una “sorgente” unica da cui tutte scaturiscono? Qual è il luogo originario in cui nasce tutta la nostra storia? La risposta è una sola: il desiderio di felicità. Tutto ciò che facciamo trova la sua origine ultima nel desiderio di raggiungere la felicità, la beatitudine. Siamo così condotti a vedere la persona umana, ciascuno di noi, come “un soggetto povero - che desidera” una pienezza di essere. È una povertà abitata da un desiderio. Ma non si tratta di un desiderio cieco. Esso è guidato da progetti (di felicità) e da idee: è guidato da una ragione. Ecco: abbiamo circoscritto l’ambito della nostra riflessione. L’affettività di cui parleremo non è altro che questa dimensione della persona umana: è la tensione verso la pienezza dell’essere, che nasce dalla nostra costituzionale povertà ontologica. E, in primo luogo, cerchiamo di penetrarne l’intima natura.

 

1. Il mistero dell’affettività umana

 

Vorrei cominciare col richiamare la vostra attenzione sulla natura paradossale dell’affettività umana. Sono esperienze che ciascuno di noi vive quotidianamente: sarà sufficiente fare un po’ di attenzione a se stessi.

- Primo paradosso. Il nostro desiderio, la nostra affettività è insaziabile. Essa non si accontenta mai: qualunque bene essa ricerca appare limitato in confronto della sua fame. Esiste una certa infinità che si scontra sempre colla finitezza di ogni bene. Se chiedi: desideri un po’ di felicità, un po’ di libertà, un po’ di verità? oppure tutta la felicità, pienezza di libertà e di verità? nessuno risponde che desidera essere un po’ felice e un po’ infelice, un poco libero e un poco schiavo, un poco nella verità e un poco nell’errore. Ma nello stesso tempo ciascuno di noi ha l’esperienza quotidiana di essere sempre in cammino, senza raggiungere mai una pienezza. La tradizione cristiana ha coniato una formula mirabile: homo viator, cioè l’uomo è un viaggiatore. Esiste una via d’uscita da questa condizione paradossale? Non voglio rispondere subito a questa domanda. Vorrei richiamare la vostra attenzione sulle soluzioni che di fatto sono state date o sono state proposte.

La prima è la più amara: “non potendo avere ciò che desideri, desidera ciò che puoi avere”. Il giovane Agostino racconta che quando sentì questa proposta, egli credette di aver finalmente trovata la soluzione all’inquietudine, al tormento della sua affettività. Ma si rese ben presto conto che questa soluzione doveva essere pagata a un prezzo troppo alto: spegnere in sé il proprio desiderio, inaridire la propria affettività. Basta poco per essere felici, si dice. Certo: ma per chi vuole essere poco felice, per chi ha già deciso di non essere nella pienezza.

Esiste una seconda proposta: “poiché niente può soddisfare il tuo desiderio, non desiderare in realtà niente, se non il desiderare stesso”. Più concretamente: non è la verità, il raggiungimento della certezza che vale, ma il puro ricercare, il dubbio permanente. Anzi chi ti chiede un assenso certo a una proposta, distrugge il tuo desiderio. Non è la definitività, ma il poter sempre ritirarsi “a tempo”, la vera libertà: tutto deve essere a termine, il matrimonio per esperimento, la vita religiosa a tempo e così via. La proposta riduce l’affettività come pura possibilità di tutte le possibilità. È come uno che volesse cucire, dimenticandosi però di fare un nodo in fondo al filo. Egli continua a cucire, senza cucire mai. È come continuare a parlare senza dire niente. È come continuare a pensare senza conoscere niente. È come camminare senza sapere dove andare.

Le due proposte, tuttavia, ci aiutano a cogliere il nucleo essenziale di questo primo paradosso della nostra affettività: essa immette una sete infinita in un soggetto finito. È la paradossalità di un essere limitato che tende a una beatitudine illimitata. È un paradosso che, se non risolto, porta la persona o alla noia o alla disperazione.

- Secondo paradosso. Il primo paradosso si radica in un secondo ancora più profondo. Orientandoci verso una felicità, una beatitudine illimitata, la nostra affettività, il nostro desiderio pone a ciascuno di noi il problema del tempo, o meglio ci introduce dentro il mistero del tempo. Notate bene: non si tratta del tempo fisico, cronologico, quello segnato dal movimento della terra e descritto nei nostri calendari. Si tratta di una dimensione della nostra persona, di un “vissuto” di cui è la nostra affettività, il nostro desiderio di beatitudine a farci prendere coscienza. Ci può essere vera beatitudine se vivo nella paura che il bene di cui godo può essere perduto? Il possesso della beatitudine senza la certezza che questo possesso non finirà mai, genera profonda angoscia. Ma questo non è tutto. Pensiamo a un’esperienza che sicuramente tutti noi abbiamo vissuto. È vero o non è vero che in certi momenti di particolare pienezza esistenziale, abbiamo detto: “oh, come vorrei che tutto questo non finisse mai!”. Il tempo è vorace, il tempo è invidioso. Ma in realtà, il desiderio che “non finisse mai” significa il desiderio che il tempo si fermasse, che non scorresse più. Cioè, diciamo la grande parola: che entrasse nell’eternità. Nessuno ha descritto questa esperienza più profondamente di Agostino e di Goethe. Agostino ha ben visto che lo scorrere del tempo è il segno e la causa dell’impossibilità per l’uomo di essere pienamente se stesso. Faust sa che solo se può dire all’istante: “fermati dunque! sei cosi bello!” egli ha vinto. Ecco, questo è il secondo grande paradosso che dimora nella nostra affettività: la persona umana che è nel tempo sente il bisogno di eternità. Essa si sente cittadina dell’eternità, data in ostaggio al tempo. Questa paradossalità chiede di essere risolta: esiste una via di uscita da questa condizione? Non voglio rispondere subito nemmeno a questa domanda. Vorrei richiamare la vostra attenzione sulle soluzioni che di fatto sono state proposte.

La prima è la più subdola. L’esperienza ci dice che il passato non esiste più, che il futuro non esiste ancora: esiste l’istante presente. Esiste, dunque, un modo semplice di uscire dal flusso del tempo: quello di buttarsi totalmente nell’istante, senza pensare al futuro, perdendo la memoria del passato. È la pura immediatezza. Nessuno ha espresso meglio questa proposta esistenziale del poeta latino Orazio nella sua poesia a Leuconoe. Egli dice: “Non indagare (non si può), Leuconoe, la nostra sorte… accetta quel che capita… sii saggia, pensa a bere e non illuderti. Mentre parliamo, il tempo vorace scivola: goditi l’oggi e del domani infischiati”.

Questa proposta esistenziale si aggancia profondamente colla concezione di libertà come “possibilità di tutte le possibilità” di cui abbiamo già parlato. In sostanza è l’immersione totale nel momento fuggente.

Ma esiste anche un’altra proposta: è la proposta dell’evasione: l’evasione fuori dal tempo, fuori dalla realtà. La diffusione sempre più massiccia della droga nella nostra civiltà occidentale dice quanto questa proposta oggi sia accettata.

Questo secondo paradosso pone alla nostra coscienza, alla nostra libertà la domanda centrale: è possibile una salvezza eterna dentro il tempo? è possibile raggiungere una beatitudine eterna dentro lo scorrere del tempo?

- Terzo paradosso. Nella ricerca di una pienezza di essere, di significato, la nostra affettività ci spinge non solamente, e non principalmente verso il possesso delle cose. Non sono le cose a donarci la beatitudine, ma le persone. Ma in questo punto si annida il terzo e più profondo paradosso della nostra affettività. Si possono possedere le persone come si posseggono le cose? si possono usare le persone come si usano le cose? nel momento in cui cerchiamo di farlo, abbiamo distrutto nel nostro cuore l’essere personale dell’altro: non è più una persona che incontriamo, non è più qualcuno, ma qualcosa. Profondamente, Gesù nel discorso della Montagna ci insegna che puoi violare la dignità di una donna anche con un solo sguardo. Se lo sguardo nasce dal desiderio, cioè da una visione dell’altro non come soggetto, ma come oggetto di cui godere, hai già deturpato la sua intrinseca bellezza e dignità. Ma, allora, da una parte, la nostra affettività è alla ricerca di una pienezza per dare compimento al proprio infinito desiderio di beatitudine, dall’altra proprio in questo modo e a causa di questo non raggiungerà mai la sua beatitudine. In parole più semplici. Se tu dici ad una persona: “ti voglio, perché ho bisogno di te” in quel momento tu non vuoi più una persona, perché hai già ridotto la persona a oggetto. Ma sembra che tu non possa non dire questo. È questa la ragione per cui molte persone hanno concluso: l’amore vero fra le persone non è possibile. È possibile solo un accordo reciproco di fare uso uno dell’altro.

In realtà sarebbe possibile, pensabile un’altra ipotesi: e se la realizzazione di sé consistesse proprio nel dono di sé? se anche nel mondo dello spirito accadesse qualcosa di simile a quello che accade nella natura? “se il grano di frumento non muore, rimane solo, ma se muore porta molto frutto”.

La riflessione sui tre paradossi che dimorano dentro all’affettività umana ci hanno condotto a porci tre domande:

- È possibile per un soggetto finito e limitato come l’uomo, raggiungere una felicità, una beatitudine infinita, illimitata a cui ci spinge la nostra affettività?

- È possibile una salvezza, una beatitudine eterna dentro il tempo in cui dimora la persona umana?

- È possibile una realizzazione di sé che consista precisamente nel dono di sé all’altro?

Se meditiamo profondamente su queste tre domande, vediamo che esse in realtà si possono ridurre ad una sola. Questa situazione di “costituzionale paradossalità” in cui dimora la nostra persona, fra finitezza e infinità - fra tempo ed eternità - fra desiderio e dono, come può essere risolta? In una parola: quale è la chiave interpretativa ultima del mistero dell’uomo, che ci è svelato dalla nostra affettività? Nella seconda parte della mia riflessione vorrei tentare di rispondere a questa domanda.

2. La moralità dell’affettività umana

 

In realtà questa stessa domanda è stata posta una volta a Cristo stesso, da un giovane: che cosa devo fare per avere la vita eterna? Notate bene. Che cosa desidera questo giovane nella profondità del suo cuore? Che cosa vuole sapere in primo luogo? non desidera sapere che cosa deve fare, in primo luogo. Questa è una conseguenza. Egli è mosso dal desiderio di possedere, di vivere una vita eterna. Non una qualsiasi vita, non una vita limitata, non un po’ di beatitudine, non un po’ di libertà. Egli desidera una vita illimitata, una beatitudine eterna, una libertà piena.

Questa è la domanda prima. E perciò, di conseguenza, egli chiede come raggiungere questa meta a cui lo spingeva la sua affettività.

La prima parte della risposta di Gesù appare, a prima vista, sconcertante: “perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono”. Perché appare sconcertante? perché sembra voler dire: perché desideri una vita che appartiene solo a Dio, solo Dio è vita eterna, pienezza di beni, beatitudine infinita. Alla creatura è concesso meno: abbrevia la misura del tuo desiderio sulla misura delle tue reali possibilità.

In realtà il Signore non accetta questa conclusione. Infatti continua: “Se vuoi entrare nella vita”. Cioè: è possibile all’uomo raggiungere quella vita, quella beatitudine che tu profondamente desideri. Giungiamo così a una prima conclusione assai importante. Poiché solo a Dio appartiene la pienezza della beatitudine, poiché all’uomo non è impedito di desiderare la pienezza della beatitudine, all’uomo non resta che una via: divenire partecipe della stessa vita divina, desiderare di divenire Dio.

E infatti anche la sapienza pagana, priva di qualsiasi rivelazione, nel suo più profondo pensatore, Platone, era giunto a questa conclusione. Non si può non cedere alla tentazione di citare la sua pagina forse più famosa, quella in cui descrive precisamente questa ascesa dell’uomo alla vita eterna, alla beatitudine vera. Ascoltiamo.

«Che cosa, dunque noi dovremmo pensare… se a uno capitasse di vedere il Bello in sé assoluto, puro, non mescolato, non affatto contaminato da carni umane… ma potesse contemplare come forma unica lo stesso Bello divino? O forse tu ritieni… che sarebbe una vita che vale poco quella di un uomo che guardasse là e che contemplasse quel Bello… e rimanesse unito a esso?… E non credi che...sarà, se mai lo fu un altro uomo, egli pure immortale?” (Simposio, 211 D - 212 A).

Ma, in realtà, questa proposta è assai ambigua. È allo sforzo umano che è chiesto di salire fino a quella contemplazione? Si tratta, alla fine, di un’avventura del pensiero solamente? E che significa quel “non affatto contaminato da carni umane”? forse non è possibile avere un’esperienza della Bellezza assoluta dentro la nostra carne, dentro la nostra storia? E, infatti, la domanda ha una ben più concreta corposità: “che cosa devo fare?” il giovane chiede. Egli, cioè, fa una domanda che riguarda l’esercizio della sua libertà. Egli, in sostanza, chiede se esiste un modo di essere liberi tale che introduca la persona umana “nella vita eterna”.

La domanda del giovane richiama un’altra pagina, ma questa volta della Sacra Scrittura. La prima parte della risposta data dal Signore, come abbiamo visto, aveva significato: poiché solo Dio è beatitudine, è vita eterna, se non giungi a Lui, se non diventi come Lui, non puoi avere la vita, la beatitudine. Ma l’uomo non aveva già cercato di “essere come Dio” precisamente per non vedere mai la morte? “Voi non morirete, ma sarete come dei”. E l’uomo aveva creduto a questa promessa e la morte era venuta a dimorare nella sua vita. Ecco: siamo ormai al punto centrale, perché siamo condotti alla “divaricazione radicale” nel proprio modo di essere liberi.

L’uomo aveva creduto di poter partecipare alla vera beatitudine decidendo egli stesso, in ultima istanza, che cosa è bene, che cosa è male, cioè in che cosa consista la propria beatitudine: divenire come Dio nel senso di porre nella propria libertà la sorgente ultima della propria felicità. Ma Gesù dice al giovane: “… osserva i comandamenti”. Cioè: Dio Stesso e solo Lui può indicarti come essere libero, per entrare nella vita, nella felicità. La libertà deve radicarsi nell’obbedienza, se non vuole smarrirsi. Nel libro dell’Esodo (19, 3-4), proprio nel momento in cui Iddio sta per donare la sua legge, dice stupendamente: “Voi stessi avete visto... come ho sollevato voi su ali di aquila e vi ho fatti venire fino a me”.

È Dio che ci solleva fino a Sé e ci fa venire fino a Lui. Come? Attraverso il dono della Sua legge. Come? Scrivendo nel cuore della persona il modo con cui essa deve essere libera se vuole entrare nella beatitudine.

Ho parlato di una “divaricazione radicale” nel proprio modo di essere libero. Che cosa significa? Ci sono due modi di essere soltanto, o si è liberi nell’obbedienza alla verità o si è liberi a dispetto di qualsiasi vincolo.

Gesù dice al giovane: se vuoi raggiungere la felicità senza limiti, sii libero nell’obbedienza alla verità (= osserva i comandamenti).

Abbiamo così raggiunto il primo concetto di moralità. La moralità e la verità che abita dentro la libertà e la guida perché giunga alla beatitudine. In altre parole: c’è un modo vero di essere libero e c’è un modo falso di essere libero; c’è una realtà di libertà e c’è un’apparenza di libertà. Chi ha capito questo, ha capito che cosa è la moralità; chi non ha capito questo, non sa che cosa è la moralità.

Ma, se vi ricordate, noi abbiamo condotto questa riflessione perché volevamo rispondere a una domanda. La domanda era: quale è la chiave interpretativa ultima del mistero dell’uomo, del mistero della sua affettività che pone la persona sempre nella tensione fra finito ed infinito, fra tempo ed eternità, fra possesso e dono? Abbiamo trovato la prima risposta.

La chiave interpretativa ultima è il modo con cui tu intendi essere libero, cioè è la moralità. C’è un modo vero, c’è un modo falso. La divaricazione consiste in questo: se sei libero nell’obbedienza alla verità, entri nella vita; se sei libero nella disobbedienza alla verità, vivi solo in apparenza.

Tuttavia il giovane che aveva posto la domanda non è soddisfatto di questa risposta. E non lo è precisamente in base alla sua esperienza. Egli aveva sempre vissuto così come chiedeva Cristo e non aveva raggiunto la vita vera, la vita eterna. Che cosa ancora mancava? in che cosa il suo modo di essere libero non era interamente vero? perché non era stato sollevato dalle ali dell’aquila?

Vorrei, per capire meglio che cosa risponde Gesù a questo giovane, che ricordassimo i tre paradossi della nostra affettività. È possibile per un soggetto finito e limitato come l’uomo raggiungere una felicità infinita, una beatitudine illimitata? Sì, se l’infinito viene ad abitare dentro il finito. È possibile una salvezza, una beatitudine eterna dentro il tempo? Sì, se l’eterno viene ad abitare dentro il tempo. La domanda del giovane, in fondo, indicava che egli voleva sapere se questo era accaduto: e in quel momento Gesù lo amò. Era arrivato il momento della suprema Rivelazione: è possibile, perché Dio, eterna beatitudine, è venuto in mezzo a noi, ha preso la nostra carne. E tu nel tempo puoi giungere al possesso della vita eterna. Ma in che modo? Ne esiste uno solo: seguire, vivere con Lui che è il Dio fatto uomo. A questo punto la risposta del Signore è terminata. E anche noi abbiamo capito il concetto di moralità nella sua interezza.

C’è un modo vero di essere liberi e c’è un modo falso di essere liberi: questa è l’essenza della moralità. Il modo interamente vero di essere liberi è quello di seguire Cristo. La libertà piena è la sequela di Cristo e la moralità è nella Sua compagnia.

Ma che cosa succede? Il giovane se ne va e, non poteva che non essere che così, se ne va triste. Perché? Perché era ricco e Gesù gli aveva chiesto di rinunciare a tutte le sue ricchezze per seguirlo e avere la felicità. Vi ricordate l’ultimo paradosso della nostra affettività? quello più profondo: la più grande affermazione di sé consiste nel dono di sé?

Siamo finalmente al momento risolutivo di tutto il mistero della nostra persona, di tutto il mistero della nostra affettività. La vera libertà consiste nel seguire Cristo, nell’essere con Lui e come Lui. Solo così raggiungi la beatitudine. Ma che cosa significa “seguire Cristo”? uscire da sé per essere dono dell’altro. (cfr. Veritatis Splendor 20).

 

Conclusione

 

Ci eravamo chiesti: quale è la “risoluzione” della paradossalità della nostra esistenza, del suo mistero quale ci è svelato dalla nostra affettività? Non dico la risoluzione a livello del pensiero, ma della nostra vita quotidiana.

Essa è nel modo vero di essere liberi, cioè nella sequela di Cristo, cioè nel dono di sé fino alla morte a se stesso, in una parola nell’amore. Ama e sarai libero e avrai, fin da ora, la vita eterna.