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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Il beato Josemaria nella persona di Alvaro del Portillo
Congresso mondiale Opus Dei
Roma 8 gennaio 2002

Uno dei luoghi più significativi per arricchire la propria comprensione del mistero della Chiesa è il rapporto fra chi ha ricevuto un carisma fondazionale e chi gli succede immediatamente nella fondazione. Per varie ragioni.

E’ un fatto in cui può essere verificata la logica propria della vita della Chiesa, anzi propria di ogni organismo vivente: la custodia della propria identità dentro ed attraverso il cambiamento e reciprocamente la necessità del cambiamento radicato nell’identità immutata del carisma. Questa logica paradossale che fa dimorare il cambiamento nell’identità e l’identità nel cambiamento è normalmente verificata dal teologo all’interno della trasmissione della divina Rivelazione. E’ lasciata la verifica allo storico della Chiesa in ogni altro campo. Erroneamente, penso. Ho studiato, per quanto mi è stato possibile, il rapporto fra il beato Josemaria e don Alvaro in primo luogo da questo punto di vista teologico.

Ma esiste anche un’altra ragione. La successione immediata al carisma fondazionale mostra solitamente uno dei modi fondamentali in cui si esprime la "comunio ecclesialis" fra due spiriti, elevazione soprannaturale di quel rapporto di amicizia fra le persone virtuose in cui già Aristotele vedeva la più alta realizzazione del bene umano, dedicandovi significativamente un intero libro della sua Etica nicomachea. Ho studiato, per quanto mi è stato possibile, il rapporto fra il beato Josemaria e don Alvaro da questo punto di vista etico per conoscere sempre più profondamente l’universo della carità, lo chiamerebbe Pascal.

Dentro a questa seconda prospettiva più etica che teologica, era necessaria una ricerca sulle virtù morali che rendono concretamente possibile quella profonda comunione ecclesiale fra due spiriti che vivono la singolare esperienza "attiva-passiva" della trasmissione del carisma fondazionale.

Ecco dunque delineate le tre fondamentali prospettive che hanno guidato questa mia modesta riflessione: teologica, teologico-etica, etica. E per darle un certo ordine espositivo la dividerò in due brevi punti. Nel primo cercherò di esporre il rapporto fra i due nel suo "cuore"; di individuarne il "nucleo essenziale". Nel secondo cercherò di indicare le fondamentali virtù morali che hanno nutrito quel rapporto dalla parte di don Alvaro.

1. IL "CUORE" DEL RAPPORTO.

La storia della Chiesa conosce degli incontri che in un qualche modo sono stati emblematici, paradigmatici sia in se stessi considerati sia per le conseguenze che hanno avuto nella storia della Chiesa. Mi limito a ricordarne tre. L’incontro pressoché casuale che un giovane di nome Gregorio, di passaggio da Cesarea di Palestina per ragioni di carriera, ebbe con Origene: l’incontro ha generato uno dei più grandi vescovi della Chiesa antica, S. Gregorio il Taumaturgo, che scriverà il racconto commosso di quell’avvenimento. L’incontro fra Basilio e Gregorio avvenuti ad Atene: è una delle pagine più suggestive di quella comunione ecclesiale di cui parlavo. Una amicizia che ha generato non solo santità, ma anche grande pensiero teologico ed insonne passione pastorale. Ed infine, quello più noto, l’incontro di Agostino con Ambrogio: un incontro che ha marcato tutta la storia successiva della Chiesa latina.

Studiando attentamente questi incontri, noi possiamo costatare che in essi si è come acceso una luce nella coscienza che l’incontrato aveva di se stesso. Questi è venuto in possesso come della chiave interpretativa della sua esistenza. Certamente, saranno necessari aggiustamenti di direzione, correzioni anche di marcia: Agostino si vedrà consegnato, per esempio, contro sua voglia alla "sarcina pastoralis", lui che desiderava dopo il Battesimo una vita di silenzio, di studio, di contemplazione condivisa con gli amici. Ma sostanzialmente si può dire che l’io spiritualmente è nato in quell’incontro.

La cosa si ripete puntualmente nel momento in cui si incrociano i destini, le vocazioni del beato Josemaria e di don Alvaro. Ne conosciamo la data precisa: 7 luglio 1935. E don Alvaro ne diede anche una sintetica descrizione: "In quel ritiro il Padre predicò una meditazione sull’amore per Dio e sull’amore per la Madonna, e per me fu un terremoto. Poi ci fu una seconda meditazione. Il Padre aveva detto che mi proponessero di entrare nell’Opera al pomeriggio; ma la persona che doveva farlo capì male e me ne parlò quella mattina stessa, e io dissi di sì". [in Don Alvaro. Fedeltà giorno per giorno; Supplemento a Romana. Bollettino semestrale della Prelatura della Santa Croce e Opus Dei, n° 19, anno 7, pag. 7]. Dall’altra parte … dell’incontro, c’era già una lunga attesa: "Ho pregato per Alvaro per anni" [ibid. pag. 6]. L’incontro avviene nella luce e nell’esperienza della verità centrale del cristianesimo, nel cuore della nostra fede: l’amore di Dio in Cristo nato da Maria.

Quest’esperienza di straordinaria profondità ["per me fu un terremoto"] prese subito una forma assai precisa, diede subito origine cioè ad un modo di esistere che mi sembra costituito da due dimensioni: un’appropriazione profonda del carisma dell’Opus Dei [e fino a qui don Alvaro è come gli altri primi discepoli del fondatore] attraverso una fedeltà radicale a chi quel carisma aveva ricevuto dallo Spirito, il beato Josemaria. Ma ciò che caratterizza, e la cosa è di decisiva importanza per capire il rapporto di cui stiamo parlando, la "figura" che assume l’appropriazione del carisma da parte di don Alvaro, è la comunione profonda di spirito col fondatore. In poche parole: appropriazione del carisma mediante la comunione di vita con chi lo ha ricevuto dal Signore. S. Bernal parla, usando un’espressione molto forte, di una "sua [= di don Alvaro] identificazione col fondatore" [in Alvaro del Portillo Prelato dell’Opus Dei, ad. Ares, Milano 1997, pag. 120].

La figura esterna della vita è pienamente coerente e conforme con questo fatto spirituale originario: già nel 1940 è nominato Segretario dell’Opus; dal 1946 al 1975, la vita di don Alvaro di identifica con quella del beato. Anzi a lui il fondatore affida anche la propria vicenda spirituale: dal 1944 don Alvaro è il confessore e il consigliere spirituale del beato Josemaria.

La verifica di che cosa era questo rapporto nel suo "cuore", può farsi chiedendosi quale coscienza don Alvaro aveva di se stesso come Prelato dell’Opus, dunque come successore. E’ un punto fondamentale per capire ciò di cui stiamo parlando. La storia delle "successioni nei carismi" mostra tre fondamentali figure: il successore "corregge" il carisma fondazionale; il successore "ripete" il carisma fondazionale; il successore "continua" il carisma fondazionale. Don Alvaro appartiene senza dubbio alla terza figura: questa era la definizione che egli dava d se stesso come successore del fondatore. Il 15 settembre 1975, appena eletto, egli disse agli elettori: "Cercavate la continuità. Non avete votato Alvaro del Portillo: avete rieletto nostro Padre" [cfr. S. Bernal, Alvaro del Portillo … op. cit. pag. 118]. E sempre nello stesso mese scriverà che lo spirito dell’Opera "ormai è inalterabile, sicché nessuno può accrescerlo o ridurlo … mantenerlo intatto, conservarlo immacolato, trasmetterlo in tutta la sua pienezza" [ibid. pag. 118-119].

La definizione che don Alvaro dà di se stesso come successore trova nella categoria della fedeltà, della continuità la sua chiave di volta, confermando così tutto il cammino interiore ed esteriore che aveva percorso il suo rapporto col beato Josemaria.

Concludo questo primo punto della mia riflessione. Mi ero chiesto: quale è il "cuore" del rapporto fra don Alvaro ed il beato Josemaria? La mia risposta è la seguente: l’obbedienza al carisma fondazionale dell’Opera in quanto trasmesso alla Chiesa nel beato Josemaria, inteso come contenuto intero del senso e della vocazione della vita.

2. LE VIRTU’ DEL RAPPORTO

Questa configurazione della propria esistenza presuppone ed esige l’esercizio di alcune virtù morali. Voglio ora soffermarmi brevemente su questa dimensione del rapporto che stiamo studiando.

In una lettera inviata a don Alvaro dal fondatore, questi scrive: "Gesù ti custodisca saxum. Ringrazialo e sii fedele…" [cit. da In Memoriam, testo di Mons. J. Echevarria]. E’ qui indicata la struttura etica fondamentale del rapporto: la fedeltà, biblicamente indicata con la metafora della pietra.

Ma che cosa implica questa fedeltà? Di quale impasto etico è costituita? Fedeltà è umiltà. Ho già avuto modo in altra occasione di parlare di questo [cfr. V. Bosch (a cura di), Servo buono e fedele. Scritti sulla figura di Mons. Alvaro del Portillo, LEV ed. 1999, pag. 44-47]. Voglio in questo contesto sottolineare due aspetti di questa umiltà.

Il primo: la dimenticanza di sé perché il carisma fondazionale potesse rifulgere nella sua integra verità. E sono, come sempre, i semplici che capiscono più profondamente. In una lettera scritta dopo la morte del fondatore da una collaboratrice domestica è detto: "Mi avevano detto che era morto il fondatore. Ma non è vero. Da quel che vedo, è don Alvaro che è morto: il Padre è ancora con noi, identico a prima" [cit. in Don Alvaro. Fedeltà giorno per giorno, cit. pag. 22]. Questa persona ha colto l’intima verità della fedeltà sostanziata di umiltà: uno sforzo costante di identificazione col fondatore. "La missione che gli era affidata ha prevalso di gran lunga sugli eventuali interessi personali; anzi è divenuta il suo interesse unico e preponderante." [ib.].

Il secondo: l’attenzione costante alla direzione, alla ispirazione dello Spirito Santo. Egli disse di sé con grande profondità teologica: "Sono come la "banderuola", per dirla in italiano. Non perché io sia una banderuola come carattere, ma perché quando soffia il vento la banderuola indica la direzione e, se ben oliata, si orienta a perfezione pure quando la brezza è molto tenue […]. Se io mi "arrugginissi", se mi intiepidissi, se non stessi attento alla volontà di Dio, non potrei segnare la direzione, la rotta; e voi potreste sbagliare strada" [cit. da S. Bernal, Alvaro del Portillo, cit. pag. 121]. Questo testo sembra un’eco di un testo stupendo di S. Tommaso: "L’uomo spirituale è mosso ad agire non principalmente dal movimento della propria volontà, ma dall’istinto della Spirito Santo … Ciò non esclude che gli uomini spirituali agiscano volontariamente e liberamente, poiché lo Spirito Santo causa in loro il movimento della volontà e del libero arbitrio" [Lect. in Rom 8,14; ed. Marietti n° 635].

La fedeltà sostanziata di umiltà genera nello spirito una grande magnanimità, la capacità cioè di agire compiendo grandi azioni per l’onore di Dio. Ha ottenuto dalla Santa Sede la definitiva configurazione giuridica dell’Opus; ha dato inizio all’opera apostolica dell’Opera in venti nuovi paesi; ha visto un grande incremento di numero di vocazioni; ha posto al servizio della Chiesa circa ottocento nuovi sacerdoti; ha fondato il Pontificio Ateneo della S. Croce a Roma. Nel rapporto con beato Josemaria e nella successione a questi, possiamo constatare quella dialettica fra umiltà e magnanimità mirabilmente descritta da S. Tommaso colle seguenti parole: "nell’uomo si trova qualcosa di grande, che possiede per un dono di Dio; ed esiste qualche difetto, che gli viene dalla infermità della sua natura. La magnanimità quindi fa sì che l’uomo si renda e si consideri grande in forza dei doni che possiede da Dio … ma l’umiltà fa sì che l’uomo abbia poca stima di sé considerando i propri difetti" [2,2,q.129,a.3,ad 4um]. La vera grandezza cristiana si costruisce dentro a questa dialettica.

CONCLUSIONE

Quando ricevetti il titolo definitivo di questo intervento, vidi che era stato formulato nel modo seguente: "Il beato Josemaria nella persona di Alvaro del Portillo". A prima vista mi sembrava più logica una semplice congiunzione. In realtà non è così. Studiando il rapporto fra queste due grandi anime ho potuto costatare che il carisma fondazionale del beato Josemaria si è come riprodotto nella persona di don Alvaro: riproduzione resa possibile da un rapporto di amicizia soprannaturale veramente mirabile.

Mi piace terminare con un testo di S. Gregorio Nazianzeno che descrive la sua amicizia con S. Basilio: "Entrambi stimavamo che fosse una sola anima a guidare i nostri due corpi e, se non bisogna credere a quelli che affermano che il tutto si trova nel tutto, si deve credere a me, quando dico che noi eravamo l’uno dentro l’altro e a fianco dell’altro" [Orazione 43,20; in Tutte le orazioni, Bompiani ed. Milano 2000, pag. 1053].

Di queste amicizie la Chiesa, la società oggi ha urgente bisogno.