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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Durata ideale del ricovero ospedaliero: aspetti etici e sociali"
Aula Magna Università degli Studi di Ferrara: Tavola Rotonda
2 dicembre 2000

Il giudizio etico sul tempo di permanenza ideale dell’ammalato in ospedale dipende da molteplici fattori. Gli studiosi di etica trovano in questa problematica un "caso classico" di quell’atto ragionevole che è il giudizio prudenziale. Esso è ben diverso da un giudizio scientifico in senso stretto, poiché la molteplicità di fattori spesso mutevoli lo rende non solo sempre rivedibile, ma spesso anche solo probabile. Del resto dicevano i vecchi moralisti, "qui probabiliter agit, prudenter agit".

Quali sono dunque i fattori che entrano, devono entrare nella formulazione del giudizio prudenziale sul tempo ideale della permanenza del malato in ospedale? Mi sembrano i seguenti.

Primo: l’affermazione che esista un diritto fondamentale di ogni persona umana, a prescindere dalla sua condizione socio-economica, alle cure mediche-chirurgiche di base, è da ritenersi un guadagno definitivamente acquisito. Ho parlato di "cure mediche-chirurgiche di base". Vedo infatti nelle nostre società occidentali una discutibile tendenza ad allargare la comprensione del "diritto alla salute" nella linea di quell’individualismo che tende a far coincidere diritto soggettivo e desiderio, escludendo la possibilità stessa di un giudizio razionale sul desiderio. "Così desidero" sembra dire l’individualismo contemporaneo "è ragione di ciò che chiedo, il mio desiderio".

Secondo: il passaggio dall’affermazione di un diritto alla salute (nel senso precisato) alla gestione pubblica del suo esercizio, cioè della salute, non è necessariamente automatico. Vale anche nell’ambito della salute il "principio di sussidiarietà". Esso può essere formulato nel modo seguente:

"una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune." [Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Centesimus Annus 48,4; EE 8/1465]. E’ da chiedersi se l’enorme crescita di spese, fattore decisivo nella soluzione del nostro problema, non sia stato causato dall’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti.

E’ inoltre da sottolineare il fatto che il bisogno della salute appartiene a quei bisogni umani che richiedono non solo una risposta tecnica, ma tale che sappia cogliere e capire la condizione umana del malato.

La nostra riflessione sul tempo ideale di permanente in ospedale rischia di essere puramente accademica, se non affronta seriamente questo "nodo", sfuggendo al dilemma che vede l’uomo o soltanto come produttore-consumatore di beni o soltanto oggetto della pubblica amministrazione.

Penso che una seria riforma del sistema sanitario fatta secondo il principio di sussidiarietà risolverebbe molti dei problemi di cui oggi ci stiamo occupando.

Terzo: la soluzione dei D.R.G. non sembra essere quella migliore a causa della sua astrattezza. Penso che bisognerebbe dare uno spazio molto ampio alla responsabilità del medico. Vorrei fermarmi un poco su questo punto, e così terminare il mio intervento entro i limiti di tempo concessimi.

Pur tenendo debitamente conto di quanto detto nei due punti precedenti, non si deve mai dimenticare che la malattia pone in essere un rapporto fra due persone, quella del malato e del medico. Sottolineo "persone": non si tratta principalmente né, meno ancora, esclusivamente di malato-tecnico della salute. E’ necessario tener sempre presente che al centro di tutta la realtà denotata dalla parola "politica sanitaria" si trova questo rapporto interpersonale, questa relazione medico-paziente con ciò che essa ha di unico ed irripetibile.

Una relazione cioè in cui nessuno dei due relati sia negato come persona. L’esercizio della medicina è giusto solo quando è vero, cioè realizzato in una prassi costitutivamente relazionale. Questa costituzione relazione significa almeno due cose.

La prima: la finalità di tutta la "gestione sanitaria" è la salute della persona. In questo senso i diritti dell’ammalato sono il primum etico di ogni politica sanitaria: diritti dell’ammalato sono le esigenze incondizionate che derivano dal suo essere persona. Dalla verità e dignità del suo essere persona.

La seconda: esiste un’autonomia strutturale della professione medica. Per autonomia strutturale intendo dire che l’esercizio della professione medica non può essere definito nella sua sostanza dalla politica sanitaria, né può essere modellata sulla nera fattualità tecnica ("se è possibile è lecito, se è lecito è doveroso").

Dall’affermazione della centralità della relazione medico-paziente deriva che nel difficile equilibrio fra il primato della persona e la gestione politica della salute, è il miglior interesse del paziente che deve essere la vera autorità in medicina. E ciò è vero sia per il politico, sia per l’amministratore, sia per il medico.

Porre in primo luogo la responsabilità del medico significa che questi deve decidere il tempo non in base a parametri fissati dalla astrazione statistica, ma in base, e secondo l’ordine, alla necessità obiettiva del malato, al rapporto non costi-benefici, ma costi-efficacia alle condizioni di famiglia e/o di assistenza che ritrova una volta dimesso, alla spesa. Non un giorno di più, certo; ma neppure un giorno di meno a causa dei bilanci.

Ho parlato di sostituire il rapporto costi-benefici al rapporto costi-efficaci. Intendo dire che deve esserci una proporzionalità fra il costo dei mezzi terapeutici, delle attrezzature tecniche e delle strutture e dei risultati terapeutici effettivamente raggiunti. La dottrina della Chiesa ha da secoli riflettuto su questo punto, distinguendo fra "mezzi ordinari – mezzi straordinari" o meglio "mezzi proporzionati – mezzi sproporzionati".

 

Concludo. Sopra ho parlato di un dilemma da quale pare non ci sia via di uscita: un dilemma che si evidenzia soprattutto in un problema come questo. Esso è descritto del modo seguente da Giovanni Paolo II. "L’individuo oggi è spesso soffocato tra i due poli dello stato e del mercato. Sembra, infatti, talvolta che egli esista soltanto come produttore e consumatore di merci, oppure come oggetto dell’amministrazione dello stato, mentre si dimentica che la convivenza tra gli uomini non è finalizzata né al mercato né allo stato, poiché possiede in se stessa un singolare valore che stato e mercato devono servire" [ibid. 49,2; EE 8/1468].

Il servizio alla dignità dell’uomo diviene particolarmente urgente quando è servizio all’uomo ammalato.