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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Prolusione accademica "La salvezza nella storia o oltre la storia?"
Facoltà Teologica dell'Emilia Romagna, 30 ottobre 2013


La parola "salvezza" denota il cuore della condizione drammatica della persona umana. Essa infatti non ha a che fare semplicemente con ciò che l’uomo possiede, che è comunque sempre a rischio. La salvezza connota un uomo che è a rischio di perdere se stesso. Gesù ha detto: "che cosa importa all’uomo se possiede tutto l’universo, e poi perde se stesso?". La misura del proprio avere non assicura la salvezza del proprio essere. Vorrei allora dedicare il primo punto della mia riflessione alla seguente domanda: che cosa mette a rischio il proprio se stesso? Non la salute del proprio corpo; non …il proprio c/c in banca: ma se stessi.

1. Parto dalla narrazione che di questo rischio hanno fatto due grandi della letteratura moderna. Il primo è Manzoni, quando descrive la famosa notte dell’Innominato. Vi leggo un momento fondamentale della descrizione.

"e il tormentato esaminator di se stesso, per rendersi ragione di un sol fatto, si trovò ingolfato, nell’esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, di anno in anno, di impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all’animo consapevole e nuovo, separata da’ sentimenti che l’avevano fatta volere e commettere… Eran tutte sue, eran lui: l’orrore di questo pensiero… crebbe fino alla disperazione". [I promessi sposi, cap. XXI: ed BUR, Milano 2000, pag. 455].

L’affermazione centrale è "eran tutte sue; eran lui". La coscienza che l’Innominato ha di se stesso non nasce dal ricordo dei delitti compiuti, semplicemente. Non vive quella notte terribile a causa di ciò che ha fatto, ma per ciò che è. Meglio: perché le sue azioni sono il "suo se stesso"; ha generato se stesso mediante i suoi delitti. Fu in quel momento che la sua divenne una coscienza disperata, e pensa all’unica conseguenza che una coscienza disperata può generare: il suicidio. Una vita così non è più degna di essere vissuta. Ha in sé una tale indegnità che non merita più di esserci.

Ci stiamo chiedendo: che cosa mette a rischio il proprio se stesso? La risposta è già abbozzata: la propria libertà, dal momento che essa può generare colle sue scelte un io indegno di esserci. Nell’esercizio della propria libertà è insito il rischio di perdere se stessi. Allora la salvezza è salvezza dalla propria libertà? E’ liberazione della propria libertà dal rischio che si trova inscritto in essa? Lasciamo per ora in sospeso queste domande [che sono la formulazione agostiniana del problema della salvezza], e procediamo a leggere e commentare brevemente il secondo testo.

Il testo di trova nella prima scena dell’Atto V del Macbeth di
W. Shakespeare. Il regicidio è già stato compiuto. La notte, ogni notte la regina, moglie di Macbeth, diventa sonnambula e la si vede lavarsi le mani e dire:

"Via maledetta macchia! Via, dico…che ragione abbiamo di temere che qualcuno lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto? … Tutti i profumi dell’Arabia non basteranno a rendere odorosa questa piccola mano". [In Tutte le opere, Sansoni ed, Firenze 1965, pag. 969].

La condizione tragica della persona umana è la consapevolezza che la perdita di se stessi è una perdita irreparabile: "tutti i profumi dell’Arabia non basteranno a rendere odorosa questa piccola mano". Alla perdita di se stessi non si vede rimedio; non è possibile riprendere se stessi e ricominciare da capo. Ed il re omicida arriverà alla stessa conclusione dell’Innominato:

"Spengiti, spengiti, breve candela! La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla". [ibid. pag. 969].

Vorrei ora brevemente riflettere più rigorosamente su questo rischio che è insito nell’esercizio della nostra libertà; sul suo potere di perdere la persona che la esercita, ed in modo irreparabile.

I possibili corsi di azione [mentire – dire la verità; rubare – rispettare le proprietà altrui …], soprattutto in certe condizioni, non si propongono alla persona collo stesso volto, allo stesso modo. Nei loro confronti la persona ha la coscienza di non essere indifferente, di non essere neutrale.

In una delle due possibilità, la persona, mediante la sua intelligenza, intravede una contraddizione con la realizzazione di se stessa. Se io mento, divento falso; se rubo, divento un ladro. Esiste una forma, un modo di realizzare me stesso che è giudicato dalla propria ragione sbagliato. La libertà della persona è legata, ob-ligata (si dice comunemente) al giudizio della sua intelligenza in quanto, mediante esso, la persona ha conosciuto la verità circa il bene di se stessa; ha conosciuto quindi per contrario quale via la porta ad una vita priva di senso, a perdere se stesso nel non-senso.

Siamo di fronte come a due dimensioni della persona in cerca dell’auto- realizzazione. La dimensione ontologica: la persona realizza se stessa attraverso il suo atto libero, mediante l’autodominio e l’autopossesso che la rendono capace di autodeterminazione. La dimensione morale: la persona è "a rischio" in quanto può realizzare se stessa nel bene [conformemente alla verità sul bene] o nel male. La più profonda realtà della dimensione ontologica può essere pensata come la realizzazione di sé nella verità del bene; la realizzazione di sé nel male è una non-realizzazione.

La libertà dunque racchiude in se stessa la dipendenza dalla verità. E’ dunque una non-libertà? Al contrario. Nel legame della persona alla verità circa il bene, la persona si libera da tutto ciò che la può determinare ad agire. Subordinandosi alla verità, si subordina solo a se stessa. E’ molto profonda l’affermazione di Lady Macbeth: "che ragione abbiamo di temere che qualcuno lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?" Ma non basta questa condizione [la condizione del potere] a pulire le mani dal sangue innocente. C’è un potere più forte di tutti: il potere della verità circa il bene della (propria) persona.

Ma la nostra esperienza ci mostra quanto sia "debole" questo potere. La nostra intelligenza non può – non ha il potere – di rompere le leggi della logica; il nostro corpo deve sottostare alle leggi della fisica e della chimica e non può rifiutare la sua subordinazione. La nostra libertà invece può contraddire nella sua scelta ciò che la nostra ragione ha affermato col suo giudizio: video meliora proboque et deteriora sequori [Ovidio]. Ma nello stesso tempo, come descrive stupendamente Manzoni, il senso del male compiuto, il rimorso, rivela più chiaramente il fatto che nella libertà umana è insito il riferimento alla verità e l’intrinseca dipendenza da essa.

E’ questa, per concludere il primo punto della mia riflessione, la definizione più precisa della condizione di pericolo in cui versa la persona umana: è in pericolo perché può rifiutarsi liberamente di subordinarsi alla verità circa il bene. La salvezza dunque consisterà nel conoscere questa verità [liberazione dall’errore], e nel liberare la libertà dal rifiuto [liberazione dal male].

2. Vorrei ora allargare l’orizzonte della mia riflessione, e passare da una considerazione per così dire meramente strutturale di ogni persona umana, alla considerazione della sua dimensione sociale.

L’uomo non è semplicemente un individuo; è una persona. E’ essenzialmente in relazione con le altre persone. Non tutte le relazioni sono contrattuali; esistono relazioni costitutive della persona umana. Tutto ciò che ho detto nel punto precedente deve essere ora ripensato alla luce della congenita relazionalità della persona.

Il p. H. de Lubac ha dimostrato sulla base del grande pensiero cristiano dei Padri della Chiesa, che la salvezza è sempre stata pensata nella proposta cristiana in termini comunitari [cfr. Cattolicesimo. Gli aspetti sociali del dogma, Jaca Book, Milano 1987]. Il pericolo di perdersi non riguarda solo il singolo, ma il rischio coinvolge anche il rapporto tra le persone, poiché esso è costitutivo dell’humanum come tale.

Nessuno si trova nella condizione di poter dire: "il rischio riguarda solo me; devo solo pensare ad uscire io dalla condizione di pericolo". Dal momento che sei costitutivamente, per costituzione relazionato alle altre persone, il rischio riguarda la comune umanità, la comunità. E’ una salvezza o una perdizione comunitaria. La narrazione biblica della costruzione di Babele ha l’intenzione di mostrarci il peccato nel suo stadio più maturo: distruzione dell’unità del genere umano, sua disgregazione e divisione.

Ma in che cosa consiste precisamente il rischio di perdere se stessi come comunità umana? O più semplicemente: quale è il rischio che la comunità umana corre? In che cosa consiste ultimamente la sua condizione di rischio?

Per rispondere a queste domande potrei percorrere due strade. La prima. Riflettere su ciascuna fondamentale comunità umana, iniziando dall’archetipo di ogni relazione comunitaria, la relazione uomo-donna, e individuare in ciascuna di esse il rischio in cui versano di perdersi. Oppure, mostrare come esiste un rischio fondamentale, comune a tutte; una sorta di male radicale universale che costituisce il pericolo di ogni sociale-umano, insidia e ne mette a rischio la sua humanitas. Seguirò questa seconda strada.

Ad un primo approccio appare abbastanza facilmente che il sociale umano non solo non è praticabile ma non è neppure pensabile, se non esistesse alcuna naturale attrazione della persona verso il bene della convivenza. Ma che cosa significa "naturale attrazione" quando si parla dell’uomo? Non è una realtà del tipo "naturale desiderio" del cibo quando abbiamo fame. L’attrazione naturale di cui parlo è un fatto spirituale: un fatto che riguarda cioè la nostra ragione e la nostra libertà. Potremmo dire: è una naturale percezione della nostra intelligenza e una naturale tendenza della nostra volontà. E’ la naturale conoscenza della verità circa il bene che è proprio del vivere associato, che è insito nella comunità. Più brevemente: del bene comune insito nel con-vivere umanamente.

Approfondiamo un poco. Di che natura è questo bene? E’ tale da unire le persone. Cioè: di tale natura che ciascuno volendolo, vuole il bene di tutti volendo il bene di se stesso; e reciprocamente: volendo il bene di se stesso vuole il bene di tutti.

Un bene siffatto non può essere semplicemente identificato con la propria utilità, il proprio individuale interesse. Non dico che la ricerca della propria utilità non crei società, ma l’associarsi di singoli individui che siano mossi ad associarsi solo dalla propria utilità o interesse, pur essendo affettivamente asociali, darà origine solo alla coesistenza regolamentata di opposti interessi.

Nella sua opera La congiura di Catilina, Sallustio fa una diagnosi del rischio che la società corre, e che spiega il sorgere di tirannie e congiure. E’ una analisi che sarà poi ripresa da Agostino.

"Dapprima si accrebbe la sete del denaro, poi quella del potere: questa è stato l’alimento di ogni male…tutto considerò venale" [X].

Già Aristotele scrisse che l’amicizia civile è il bene principale della città, poiché è proprio la definizione dell’amicizia pensare e praticare il bene dell’altro come il bene proprio. La vita in comune non può basarsi solo su contratti di mercato. Senza l’amicizia civile essa non ha consistenza.

Siamo arrivati alle stesse conclusioni della riflessione precedente. La libertà della persona costruisce il sociale umano subordinandosi alla verità circa il bene comune, circa la bontà insita nel sociale propriamente umano.

Ma nella libertà della persona è inscritta la possibilità di insubordinarsi alla stessa verità, scegliendo il proprio bene prescindendo dal o anche contro il bene comune. Già Agostino aveva descritto la costruzione di una città da parte di un amor sui, che giunge fino al disprezzo di Dio.

Non diamo alla dizione "disprezzo di Dio" un significato esclusivamente religioso. E’ il disprezzo di una misura, di un modo, di una forma del convivere che abbia come referente un bene, un universo di valori non determinato dall’uomo stesso. I risultati di una società di individui affettivamente asociali, radicalmente slegati, li stiamo sperimentando nei nostri giorni tristi e sconsolati.

Possiamo ora descrivere con precisione la condizione di pericolo in cui versa il sociale umano: è in pericolo perché la libertà della persona può liberamente rifiutarsi di subordinarsi alla verità circa il bene comune, e ripiegarsi, incurvarsi sul proprio bene privato. La salvezza dunque consisterà nel conoscere e riconoscere questa verità [liberazione dalle dottrine sociali errate], e nel liberare la libertà dall’amor proprio [liberazione dall’egoismo].

3. Inizio il terzo punto della mia riflessione citando un testo del Vaticano II

"Così l’uomo si trova in se stesso diviso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Anzi, l’uomo si trova incapace di superare efficacemente da se medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato" [Gaudium et Spes 13].

E’ la sintesi di quanto detto finora.

La proposta cristiana della salvezza – ora sappiamo che cosa significa "salvezza" – ha il suo fondamento nell’evento dell’incarnazione del Verbo-Dio. La pietra angolare della ricostruzione dell’humanum è l’humanitas assunta dal Verbo-Dio: è l’humanitas del Verbo-Dio. S. Leone M. lo esprime in modo sintetico: "hoc est quod justificat impios, hoc est quod ex peccatoribus facit sanctos, si in uno eodemque Domino Jesus Christo, et vera Deitas et vera credatur humanitas" [Sermo 15, 1.3] (Quel che in realtà rende giusti gli ingiusti e santi i peccatori è proprio questo: credere che nell’unico e medesimo Signore Gesù Cristo coesistano la vera divinità e la vera umanità).

Così fondata, la proposta salvifica cristiana non può non porre una salvezza dell’uomo dentro la storia. Per le seguenti ragioni.

La via scelta dal Verbo-Dio è l’assunzione nella sua persona della natura e condizione umana. Questo fatto significa che Dio stesso ha vissuto la vicenda umana in tutte le sue dimensioni [escluso il peccato]. Quale senso può avere una tale scelta da parte di Dio, se non la salvezza della persona umana nella sua concreta vicenda storica? I Padri della Chiesa amavano ripetere: "ciò che non è assunto non è salvato". E quindi, positivamente: ciò che è assunto è salvato.

Ma che cosa significa precisamente, rigorosamente parlando, la salvezza dentro la storia offertaci dalla proposta cristiana?

L’atto salvifico del Verbo incarnato si pone, si incunea dentro ogni persona umana, là dove essa sceglie di subordinarsi o insubordinarsi alla verità e circa il bene della persona medesima e della società umana. E’ infatti in quel punto, nella divaricazione esistenziale fra il bene e il male, fra il vero e il falso, che si decide il destino della persona nel suo essere stesso. Esso non si decide fra la scelta, per esempio, di un sistema economico o un altro.

Poiché il vero dramma dell’uomo è quello di potersi decidere a negare colla sua scelta la verità che egli stesso ha riconosciuto col giudizio della sua ragione, è a questo livello che l’uomo decide di vivere una vita buona, una vera vita oppure una vita di cattiva qualità, una vita falsa. E’ l’uomo nella sua humanitas, l’humanum dell’uomo, che è degradato quando nega colla sua libertà la verità circa il suo bene. E’ il sociale umano come tale che viene degradato, quando è costruito con scelte che negano la verità circa il bene che è insito nel sociale umano medesimo. La persona umana prende coscienza della proposta salvifica cristiana quando è pienamente consapevole del suo dramma.

"I peccati dell’uomo, sia nella loro dimensione personale sia in quella sociale, tutto il mysterium iniquitatis e, in esso, tutta la peccaminosità e la debolezza dell’essere umano, costituiscono l’oggetto della redenzione" [K. Wojtyla, Alle fonti del rinnovamento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007,79].

L’atto redentivo non guarisce solamente, ma guarisce elevando la persona alla sua originaria verità e dignità.

In che modo? Rispondendo ai due bisogni fondamentali dell’uomo: il bisogno di verità; il bisogno di bene. L’atto salvifico che il Verbo incarnato propone all’uomo è dono di luce che guida senza dubbi la persona nella vita del bene: è redenzione della nostra ragione. E’ dono di una forza che abilita la nostra libertà a realizzare la verità conosciuta: è liberazione della nostra libertà. Vorrei fermarmi un momento su questo ultimo aspetto.

Penso che tre siano gli eventi fondatori della nostra idea ed esperienza di libertà, in Occidente: la liberazione del popolo ebreo dalla schiavitù egiziana; la dottrina e l’esperienza della polis greca; la costruzione dell’ordinamento giuridico romano, sia privato che pubblico, attorno alla profonda scoperta di una res publica [salus republicae suprema lex].

La proposta salvifica cristiana fa proprie tutti e tre questi eventi storici, nella consapevolezza che essi, nel loro insieme, hanno "inventato" la grammatica fondamentale del linguaggio della libertà.

L’uomo non è libero da ogni potere se non riconosce la sovranità di Dio; la libertà non è un bene individuale, è un bene condiviso all’interno di una comunità, e che si radica nell’esercizio del logos [nel duplice senso di pensiero e di parola]; la comunità umana è fondata su un "bene comune", una res publica, e l’esercizio della libertà è la realizzazione di questo bene comune [cfr. la diagnosi della corruzione di Roma fatta da Sallustio: diagnosi che ha profondamente ispirato Agostino nel De civitate Dei].

La proposta cristiana ha assimilato tutto questo e lo ha portato al suo vertice. Assimilazione che trova la sua espressione più chiara in Gal 5, 13-14: "voi…siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate al servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso".

La libertà sembra "rovesciarsi" nel suo contrario: diventare servi gli uni degli altri. In realtà è in questo "rovesciamento" – che è più giusto chiamare trasfigurazione - che la libertà diventa interamente buona e vera, poiché costruisce un rapporto coll’altro fondato sull’amore.

La liberazione della libertà consiste alla fine nel dono fatto all’uomo della capacità di amare. Questa capacità è connotata nel vocabolario cristiano col "dono dello Spirito Santo".

4. Nel punto precedente, in fondo, ho commentato, ho cercato di capire un testo paolino che dice: "E’ apparsa… la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna…a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo" [Tit 2, 11-12].

Ma l’apostolo fa un’aggiunta: "nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostra grande Dio e salvatore Gesù Cristo".

Nel testo paolino ci sono dunque due affermazioni. La salvezza cristiana dona la possibilità di vivere in questo mondo secondo uno stile di vita caratterizzato da sobrietà, giustizia e pietà; è una salvezza che accade dentro la storia, poiché cambia il "costruttore" della medesima. Il testo greco usa il verbo "παιδεύω" che indica l’atto educativo della persona. La proposta cristiana educa la persona umana a vivere dentro la storia in una forma precisa. E’ la salvezza dentro la storia.

Ma nello stesso tempo viene detto che resta nell’uomo un’attesa che ha per oggetto qualcosa ed un evento che è oltre, fuori la storia. La salvezza donata all’uomo dentro la storia non soddisfa pienamente l’uomo medesimo, e lo lascia in attesa di qualcosa d’altro.

Vorrei ora nel quarto ed ultimo punto della mia riflessione riflettere su questo, cercando di rispondere a due domande: [4.1] perché la salvezza dentro la storia è insoddisfacente? [4.2] Che cosa è atteso come evento salvifico oltre la storia?

4.1 La salvezza dentro la storia riguarda la persona umana come tale: in se stessa e nei suoi rapporti sociali. Essa consiste nella soluzione del dramma umano: rendere la persona capace di conoscere e realizzare la verità circa il suo bene. Renderla capace di vivere una buona vita, una vita vera.

Ora, non c’è dubbio, che fa parte di una buona vita, di una vera vita, per usare ancora le parole di Paolo, "conoscere Dio, dargli gloria e rendergli grazie come a Dio" [cfr. Rom 1,21]. La conoscenza di Dio, suprema e costitutiva per la razionalità dell’uomo, ha il suo frutto solo se la libertà decide di riconoscerlo come Dio: di amarlo come Dio merita di essere amato. Senza questo supremo atto dello spirito, la persona "soffocherebbe la verità nell’ingiustizia"[cfr. Rom 1,18].

Questa esigenza incondizionata dell’amore di Dio richiede per sé stessa che (a) la persona sia immortale, e che (b) possa "possedere" Dio stesso.

(a) Esige l’immortalità della persona. Se la morte distruggesse completamente, facesse scomparire completamente la persona che ama Dio come merita di essere amato, delle due l’una.

O è Dio stesso che con un atto della sua onnipotenza distrugge completamente la persona che lo ama sopra ogni cosa: il che sarebbe profondamente ingiusto.

O è la creatura stessa, la persona umana che a causa della sua intima corruttibilità, è costretta, nel momento della morte, a porre fine alla sua relazione con Dio: il che contraddirebbe la ragionevolezza, la sensatezza della creazione. E’ assurda una creazione nella quale ciò che è degno di essere, per sua stessa natura è destinato al non-essere.

S. Anselmo d’Aosta ha una formulazione stupenda di questo pensiero: "sic igitur est facta ut semper vivat, si semper velit facere ad quod facta est" [Monologion 69: (così dunque essa è stata creata perché viva per sempre, se vuole sempre ciò per cui è creata)].

Quando Gesù viene interrogato sulla risurrezione dei morti, Egli definisce Dio come "un Dio non dei morti ma dei vivi" [cfr. Mc 12,27 e par.].

(b) L’amore esige la presenza e la piena comunione con la persona amata. Cito ancora S. Anselmo: "quid ergo summa bonitas retribuit amanti et desideranti se, nisi scipsum? Nam quidquid aliud tribuat, non retribuit, quia nec compensatur amori nec consolatur amantem nec satiat desiderantem" [Monologion 70 (che cosa dunque ricambierà il sommo bene a chi lo ama e lo desidera, se non se stesso? Qualunque altra cosa gli desse, infatti, non sarebbe un ricambio adeguato, non consolerebbe l’amante non sazierebbe il desiderio)].

Questo "ricambio" è impossibile nell’attuale condizione dell’uomo, dal momento che in essa egli non può che avere una conoscenza di Dio per immagine. La salvezza che avviene dentro la storia esige di essere perfezionata oltre la storia.

Giungiamo alla stessa conclusione considerando la salvezza della dimensione sociale dell’uomo.

La socialità umana si esprime ad un triplice livello: il matrimonio-famiglia, la società politica, il mondo intero. Sono i tre livelli naturali. Ciascuno di essi ha in sé una sua bontà propria, una sua preziosità etica e non solo di carattere utilitario. Ma ciascuno di essi è continuamente insidiato dal male. Vorrei fermarmi tuttavia solo sul secondo, per la grande importanza che esso ha nella vita umana, e per la difficoltà dei problemi che esso pone nel contesto della riflessione che stiamo facendo.

La tesi è che la società politica ha in sé il bene proprio della socialità e la sua forza disgregatrice. Essa da sola non è in grado di risolvere in meglio questo conflitto, ed ha bisogno di una civitas che non appartiene più alla storia. In due parole: la pienezza della communio personarum come realizzazione perfetta della socialità umana, è possibile solo oltre la storia.

Come dicevo sopra, già Aristotele ripreso poi da Tommaso pensava che il principio non solamente regolativo, ma soprattutto costitutivo di una società politica è l’amicizia civile, l’amore degli stessi beni fondamentali condivisi [oggi si direbbe la fraternità]. Istituzioni e leggi statali, costumi ed usanze, trovano il loro fondamento e il loro criterio direttivo in quel legame, e ne sono l’espressione formalizzata e societaria.

Quali beni condivisi? Si è oggi arrivati alla conclusione che non possono essere beni sostanziali, dal momento che nessuno di essi è per principio condivisibile. Sono solo beni procedurali: il rispetto delle regole.

Detto in altri termini. Perché sia possibile una vera amicizia civile, l’uomo dovrebbe entrare nella comunità politica liberandosi dai suoi progetti di vita buona, dalle convinzioni della sua coscienza; queste infatti renderebbero impossibile la comunità politica.

In ultima analisi, la società politica come oggi cerca di realizzarsi, è la contraddittoria costruzione di una società fra persone cui è chiesto di non mettere in comune ciò che è propriamente umano: una società di affettivamente asociali. All’ utopia totalitaria si è sostituita l’utopia procedurale dell’impersonale. Questo in fondo è stato il percorso della modernità: una comunità impersonale di persone.

Agostino ha scritto: "nihil… est quam hoc genus tam discordiosum vitio, tam sociale natura" [De Civitate Dei 19, 27.1; NBA V/2, pag. 212 (La razza umana … è la più incline alla discordia per passione e la più socievole per natura)]. Il "sociale natura" non vince dentro la storia il "discordiae vitium". E’ solo oltre la storia che si ricostruisce l’unità fra le persone umane.

La realizzazione, la civitas hominum, è salvata interamente da qualcosa che è oltre se stessa. Quando dico "salvata interamente" intendo: capace di rispondere pienamente al bisogno di socialità inscritto nella persona umana. La risposta politica è in se stessa inadeguata.

La socialità umana chiede, desidera una comunione delle persone nella quale ciascuna è pienamente se stessa nella relazione con l’altra. A questa domanda nessuna realizzazione storica è in grado di rispondere [cfr. F. Hadjadj, Il paradiso alla porta, Lindau, Torino 2013]

4.2 Da quanto ho detto, non è ora difficile avere una qualche intelligenza di ciò che attendiamo, quando attendiamo un evento salvifico oltre la storia.

L’attesa dalla beata speranza è la pienezza della comunione con Dio nella perfetta unità fra le persone.

Non con un Dio ignoto, ma col Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; col Dio che ha parlato a Mosè sul Sinai; col Dio che inviando il suo Figlio unigenito nella nostra carne, ci ha aperto il suo cuore e ci ha guidati nel nostro cammino dentro la storia.

E’ il Verbo fattosi carne che ci dona la capacità di vivere con sobrietà, giustizia, e pietà in questo mondo, senza perdere la speranza; vivendo dentro una storia personale e sociale che è intrisa di intemperanza, di ingiustizia, e di empietà. E’ la resurrezione di Gesù che ci dà la certezza che la nostra attesa non sarà delusa. La nostra umanità in Lui è già colmata dalla gloria della Presenza di Dio.

Concludo. La domanda di fondo su sui abbiamo costruito tutta la nostra riflessione era: accade una salvezza dell’uomo dentro la storia o fuori dalla storia? La nostra risposta è stata la seguente, in sintesi.

a) Se accade una salvezza, questa non può non accadere che dentro la storia, poiché è dentro la storia che l’uomo è a rischio.

Se accade una salvezza, questa non può accadere che fuori la storia, poiché il desiderio dell’uomo è soddisfatto solo nell’incontro con Dio.

b) Questa salvezza è accaduta ed è proposta come possibilità reale all’uomo dentro la storia, perché Dio si è incarnato, si è fatto uomo. Pertanto, ci educa a vivere con sobrietà, giustizia, e pietà in questo mondo, e ci dona la speranza fondata dell’incontro con Dio oltre la storia.

c) E’ questo che opera la Chiesa: rendere presente, contemporaneo ad ogni uomo questo evento di salvezza, perché nessun uomo vada perduto.