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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


P. P. Ruffinengo, "Ontonoesis. Introduzione alla metafisica": marginalia alla sua lettura
Casa Cini – Ferrara
27 giugno 2002

Che motivo può avere un Vescovo a presenziare ad un dibattito sulla metafisica, più concretamente ad un libro che si qualifica come "Introduzione alla Metafisica?". La domanda è generale, ovviamente: esiste una condivisione di destino fra il "credere" ed il "pensare metafisico"?

E’ noto che fu la Riforma protestante a scuotere violentemente questa certezza della tradizione cattolica sia latina sia orientale, ponendo la fede come causa del suo stesso sapere senza nessuna pre-condizione, o meglio pre-supposto.

Poiché ritengo che: 1) esiste una connessione necessaria fra il "pensare metafisico" e il "credere"; 2) una delle cause principali della grave crisi in cui versa oggi la fede cristiana sia stata l’espulsione del pensare metafisico dal pensare cristiano, sono convinto che ogni sforzo di reintrodurvelo debba essere favorito dai pastori, che sono i "dottori della fede".

E’ però importante che si chiarisca subito il significato di "pensare metafisico" [problema classico dell’oggetto della metafisica]: è da questa domanda fondamentale che inizia la riflessione di Ruffinengo (cfr. pag. 15) e termina (cfr. pag. 236-238). Solo dopo aver chiarito, mostrato [non dimostrato!] questo significato potremo riflettere sulle due affermazioni fatte.

01. [Il pensare metafisico]. Scrive S. Tommaso: "in hac scientia nos quaerimus principia entis in quantum est ens: ergo ens est subiectum huius scientiae, quia quaelibet scientia est quaerens causas proprias sui subiecti". [In Metaphysicorum lib. IV, lect I, 533]. Uno dei meriti principali di questo libro è di aver chiarito in modo semplice ed essenziale che cosa intendiamo quando dico "ens-ente". Cito una delle formulazioni più riuscite: "il puro è, detto da solo senza soggetto e predicato, indica … l’atto di essere, come diceva S. Tommaso… E la riflessione ci ha fatto concludere che l’atto d’essere non è una cosa tra le cose, un essere fra gli essenti conoscibile con un concetto, ma il fondamento, la condizione ontologica trascendentale della realtà delle cose, e della stessa attività del pensiero che "produce" i concetti, non conoscibile con un concetto come le cose essenti, ma con un atto di intuizione" [pag. 222].

E’ questa la via per uscire da quell’essenzialismo che troviamo anche in tanta parte del pensiero cristiano, fuori dalla concezione tommasiana. Infatti "S. Tommaso parla sempre della composizione e distinzione di quod est ed esse, di forma e esse, di essenzia ed esse ... dove l’esse è l’atto ...: esso è atto dell’ente in quanto principio di consistenza e di sussistenza, come atto dell’essenza ch’è perciò la sua "potenza", capacità reale di una natura materiale o spirituale. Come atto e perfezione della sua potenza, l’esse procede e trascende la forma e l’essenza: è Atto primo ed emergente e perciò può essere assunto come la più alta determinazione di Dio" [C. Fabro, Tomismo e pensiero moderno, Roma 1969, pag. 101]. Il pensare metafisico è "ontonoesis": è intellezione dell’ [atto di] essere. E quindi ricerca del fondamento: fondamento senza qualità ma qualificante, incomunicabile ,a comunicante, irraggiungibile ma sempre in un qualche modo raggiunto. Il pensare metafisico quindi nasce dalla percezione intellettiva che l’esistenza non è in-intelligibile, ma è la fonte prima dell’intelligibilità. Esso quindi verte non sui concetti più astratti, ma sull’atto stesso dell’essere. Questa è stata la svolta impressa da Tommaso, uno dei guadagni massimi nella storia del pensiero: il pensiero non ha voluto pensare solo le essenze [Platone] ma l’esistenza stessa. "Non come il mondo sia, è ciò che è mistico, ma che esso sia": questa celebre frase si Wittgenstein esprime la vera sorgente segreta del pensare metafisico.

Occorrerebbe ora fermarsi brevemente sull’atto che manifesta il pensare metafisico, in cui il pensare metafisico si realizza. Ruffinengo parla di "intuizione intellettuale" [cfr. le pagine assai importanti 208-211]. E’ questo, penso, uno dei nodi centrali di ogni pensare metafisico. Penso che il pensare metafisico come ontonoesis, come cioè pensare l’essere dell’ente sia possibile se esiste un’intuizione intellettuale. Negata questa diventa impossibile la metafisica nel senso suddetto. Mi interesserebbe sapere cosa l’Autore pensa della forma rosminiana con cui è stato elaborato il teorema dell’intuizione intellettuale.

Ma non voglio fermarmi oltre su questa premessa, per passare alle due affermazioni.

 

1. [Pensare metafisico e credere]. E’ questo un tema che non è direttamente trattato dall’Autore, né doveva farlo. E’ solo accennato [cfr. pag. 238-239]. Ma leggendo il libro, è stato un pensiero che mi ha continuamente accompagnato: non stiamo andando fuori argomento.

La necessaria (a livello di pensiero, si intende) connessione fra il pensare metafisico e il credere è una correlazione e quindi si istituisce in una duplice direzione: dal credere al pensare e dal pensare al credere.

La prima direzione. E’ raro che Tommaso ricorra ad espressioni che non hanno a che fare colla chiarificazione del pensiero, ma che esprimono l’emozione spirituale. Ciò accade in un testo della Contra Gentes [I, cap. 22,211]: "Hanc autem sublimem veritatem Moyses a Domino est edoctus …". Di quale "sublimis veritas" parla Tommaso? Di questa: "Deus autem est primum ens, quo nihil est prius. Dei igitur essentia est suum esse" [ibid. 210]. Il testo, così come tutto il capitolo, deve essere letto e meditato con molta attenzione. La rivelazione biblica, che nel dialogo fra Dio e Mosè riferito in Es. 3,13 raggiunge uno dei suoi vertici, ha generato nella storia del pensare metafisico quella che V. Possenti ha chiamato la "terza navigazione" [cfr. Essere e intellectus. Una prefazione alla metafisica, in Rivista di filosofia Neoscolastica 3, 1991, pag. 385-429 ]. Nella "terza navigazione" la coppia metafisica fondamentale non è più né "sensibile-intelligibile", né "materia-forma", ma "essentia-esse", dove l’esse è l’actus che attua l’essenza che è mera capacità di essere.

Alla luce, sotto l’influsso della Rivelazione biblica l’essente (ens) viene penetrato in direzione dell’essere, per giungere fino alla determinazione di Dio come Ipsum esse subsistens. E’ solo percorrendo questa via che l’uomo può giungere colla sua ragione all’affermazione di Dio, non come l’ente supremo, ma come l’Esse ipsum: infinità presente, sufficiente in se stessa nella sua perfezione adeguata, illimitata. Ecco perché, quando la Rivelazione biblica rivela che questo Dio è interessato infinitamente alla creatura umana, commuove fino alle lacrime [cfr. il testo agostiniano En in psalmun CI, Sermo 2,10: NBA XXVII, pag. 558-562].

Questa metafisica, generata dalla Rivelazione biblica, è l’unica sostanza perenne dell’umano questionare essenziale: quello che si interroga sulla fondazione del finito nell’Infinito, degli enti nell’Essere. Leggendo i testi tommasiani che riflettono sui primi principi della "metafisica dell’atto" noi comprendiamo colla nostra ragione la vera costituzione paradossale del nostro "esse per partecipationem". Esso è infinitamente distante da Dio, ed insieme intimamente appartenente a Dio e assolutamente dipendente da Lui.

E’ questa la ragione; più precisamente l’attitudine ragionevole religiosa: non ragionevolmente cristiana o ebraica o mussulmana. E questa ragione può degnamente porre il problema della Rivelazione: è credibile che questa sia la Rivelazione divina? Ma siamo già alla seconda direzione.

La seconda direzione, dal pensare al credere. E’ la ragione metafisica che cerca il vero, per indicare il porto ultimo dove la volontà incontra il Bene sommo. Aveva ragione Agostino a dire che noi filosofiamo per raggiungere la beatitudine: "nulla est homini causa philosophandi nisi ut beatus sit" [De civitate Dei XIX, 1]. A questo desiderio ragionevole o ragione desiderante può essere risposta adeguata solo Dio posseduto, goduto immediatamente: "revelata facie". Non nel senso che sia possibile godere Dio come Dio gode se stesso, ma nel senso che ci beatifichiamo in Dio portando all’attualità infinita il nostro intelletto e la nostra libertà. E’ la risposta interamente vera e buona alla persona creata. Il pensare metafisico che pensa la verità dell’essente finito, ci libera da ogni oblio dell’esistenza e della vita, lascerà cadere l’intenibile critica dell’ontoteologia, e renderà all’uomo la consapevolezza del suo "naturale desiderium videnti Deum". E’ questo uomo che è in grado di vivere l’incontro di Andrea [cfr. Gv 1, 35 ss], perché può seriamente rispondere alla prima parola rivolta dal Verbo incarnato all’uomo: che cosa cercate?

2. [L’anti-metafisica e la crisi di fede]. La lettura del libro di Ruffinengo ci fa capire quale sia l’essenza dell’attitudine anti-metafisica, per contrarium. Egli, riprendendo una famosa affermazione aristotelica, parla di uno "stupore di fronte all’essere": è l’attitudine metafisica. L’attitudine anti-metfisica è il "sospetto di fronte all’essere". Mi spiego.

L’apprensione dell’essere dell’ente non ha niente in comune con le altre conoscenze, poiché l’essere non si concede mai in modo immediato alla presa della ragione: il fondamento della verità non è concettuale, ma è la realtà stessa che si mostra donandosi. L’essere dell’ente mostrandosi chiede quindi all’uomo una decisione, quella di porre il fondamento della propria consistenza fuori di sé, in una realtà che non dipende dalla propria volontà e dalla propria intelligenza. Non è la coscienza che contiene e sostiene il suo atto di essere, ma è il suo atto di essere che porta la coscienza: l’atto di coscienza non è l’atto di essere.

L’attitudine anti-metafisica è l’attitudine di chi non dona l’assenso della volontà ad accogliere la realtà nella sua evidenza trovata, perché non si è disposti ad accettare la trascendenza dell’essere: suo proprio e di ogni ente.

E’ questa l’attitudine anti-religiosa, e soprattutto anti-cristiana. Perché l’uomo che ne è esistenzialmente pre-occupato non può non ridurre il Revelatum all’impensabile, e quindi ridurlo all’opinabile; il credere non è affermare una verità, ma un voler semplicemente "tener per vero", senza nessuna pretesa di universalmente vero. Il cristianesimo è un’emozione senza alcuna dimensione veritativa.

La ragione sganciata dall’essere non può più ammettere la possibilità di una verità rivelata e quindi proponibile e da proporsi a tutti perché universalmente valida, poiché una tale ragione ha ridotto la verità a questione soggettiva. Al contrario dell’affermazione centrale del cristianesimo: la verità è per tutti e se Cristo è "la grazia della verità" [cfr. Gv 1,17], allora egli è da predicare a tutti.

Vorrei ora mostrare alcuni segni di questa deriva cui la fede cristiana può andare incontro quando viene assimilata da una cultura anti-metafisica. Ne accenno solo due.

Il primo è la ricerca più dell’esperienza religiosa che della fede: la dimensione veritativa è obliterata sempre più.

Isaia non intese comunicare una sua propria esperienza religiosa e solo una sua propria esperienza religiosa, e così Paolo e gli altri Apostoli, ma la parola di Dio. E per Isaia, per Paolo, per gli altri Apostoli la parola di Dio è vera, ti fa conoscere cioè come stanno le cose. E quindi chi crede alla parola di Dio, è certo di conoscere la verità, e con tale certezza da non avere il benché minimo dubbio che le cose non stiano esattamente come la parola di Dio dice che stanno. "Actus … credentis" scrive Tommaso "non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem: non enim formamus enuntiabilia nisi ut per ea de rebus cognitionem habeamus, sicut in scientia ita et in fide" [2,2, q.1, a.2, ad 2um].

Le categorie proprie dell’esperienza religiosa non sono le stesse della dimensione veritativa sempre implicita nella Parola di Dio. Infatti, il contenuto dell’esperienza religiosa dice ordine e relazione al soggetto che la prova; la Parola di Dio non è imprigionata al "quoad nos", ma essa mi dice come stanno le cose in se stesse.

E’ in questo senso che l’espulsione dal credere del pensare metafisico in esso implicito sempre, finisce sempre col ridurre la fede ad un’opinione prodotta dal soggetto. La Chiesa ha capito questo per la prima volta a Nicea, e non se può più dimenticare.

Quanto detto non significa ovviamente che ogni credente deve essere criticamente ed esplicitamente consapevole di questa dimensione metafisica implicita nella fede.

Il secondo è nel ritenere che la verità universalmente valida della fede cristiana debba porsi nel suo utilizzo per difendere la giustizia, la pace, e la natura dalla catastrofe ecologica. Un’universalità di uso pratico.

Voglio terminare con un pensiero di C. Fabbro: "Tutto quello che si può fare in filosofia è o fare un altro sistema (e questo è completamente inutile perché bastano quelli che ci sono), oppure è cercare di capire quello che hanno detto gli altri sistemi, e orientarsi, perché la conoscenza di un sistema può persuadere o non, ma il persuadersi non è l’effetto del sistema, è l’effetto della coscienza di ciascuno di noi, è un rischio, è una decisione di libertà" [Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, Piemme ed., Casale Monferrato 2000, pag. 67 n° 332].

Ruffinengo finisce la sua riflessione allo stesso modo [cfr. pag. 239]. In sostanza, la lettura del libro è consigliata proprio perché conduce ad assumersi il rischio esistenziale più intenso: attraverso il proprio piccolo è intravedere la presenza dell’Essere.