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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Riapertura del Santuario S. Maria della Vita
21 maggio 2010


Esprimo la più profonda gratitudine a tutti coloro che ci consentono di rivedere questo luogo in tutto il suo splendore. Innanzi tutto alla Fondazione CARISBO nella persona del suo Presidente prof. Roversi-Monaco; a tutti coloro che hanno realizzato il restauro. Due sono le ragioni per cui a queste persone devo gratitudine: per ciò che questo luogo è e significa per la Chiesa di Bologna; per ciò che, a causa di questo significato cristiano, rappresenta per la nostra città.

1. A me sembra che tre date ci fanno comprendere il significato di questo luogo. Anno 1287: la Compagnia laicale dei Devoti, popolarmente denominata dei Battuti o Flagellanti posa la prima pietra dell’ospedale dei devoti presso il Santuario di Santa Maria della Vita. 8 aprile 1462, venerdì Santo, Niccolò dell’Arca consegna il compianto alla Compagnia. Il 10 settembre 1614 l’antica immagine attribuita a Lippo di Dalmasio o a Simone dei Crocefissi, dopo due secoli viene riscoperta.

I tre fatti sono legati fra loro da una logica interna, che ci viene mostrata dalla disposizione della Bolla d’indulgenza concessa nel 1464 ai visitatori di questo Oratorio dell’ospedale di Santa Maria della Vita, in forza della quale il Mortorio di Niccolo’ dell’Arca doveva essere visto nel contesto di importanti celebrazioni dell’anno liturgico: "Nativitatis et Resurrectionis domini nostri Jesu Christi diebus ac Pentecostes et beati Raynerii festivitatibus a primis vesperis usque ad secundas vesperas inclusive".

La contemplazione visiva del mistero della Redenzione resa possibile da Niccolò si doveva unire alla contemplazione propria della fede dello stesso mistero celebrato nella Liturgia. L’unificazione fra il credere, il celebrare e il vedere doveva produrre in tutta la persona del credente la certezza del fatto redentivo che il sacramento celava; procurargli un senso elevato del suo realismo. La contemporaneità del vedere che è proprio di una fides oculata [S. Tomaso d’A.] col vedere che è proprio del desiderio del cuore che ama, aiutava ad una perfetta compartecipazione al mistero redentivo.

Educati a vedere nella celebrazione liturgica dentro allo svolgimento del rito ciò che Nicolò mostrava nella composizione, i confratelli di S. Maria della Vita potevano così vedere il Christus patiens in quei "pauperes et alie (sic) miserabiles personae" che, sempre secondo la Bolla del 1464, essi dovevano soccorrere.

Si trovavano dentro uno spazio sacro che era costituito dal mistero della fede, rappresentato nella sua res dal compianto, e realmente presente nel povero e nell’ammalato.

2. Ora questo luogo viene restituito alla città: ai credenti e non credenti. Ai primi perché celebrandovi fedelmente e quotidianamente i santi Misteri, rendano possibile anche a chi è ancora alla ricerca di un senso definitivo alla fatica del vivere, di rivivere l’esperienza sia pure ancora inespressa di un Mistero di sofferenza e di carità, che ha fecondato questa città.

I grandi artisti come Niccolò non creavano oggetti di cui fruire per qualche istante. Volevano aiutarci a strappare il velo dalla nostra ordinaria ottusità, guidandoci ad una vera compartecipazione al destino di dolore dell’altro: alla caritas in veritate.

Tutti sappiamo come questa compartecipazione sia il più solido tessuto connettivo di ogni città. È per questa ragione che questo luogo santo va custodito nella sua sacralità, perché continui ad essere sorgente di vero umanesimo.